Prosegue il viaggio nella storia del Premio Ilaria Alpi con le interviste ai vincitori. Oggi Michele Alinovi della Scuola di Giornalismo La Cattolica di Milano ha intervistato Francesca Ulivi che nel 2012 vince il Premio Ilaria Alpi con l’inchiesta Mare Deserto.
Emiliano Bos, 41 anni, nato e cresciuto in Brianza, una laurea alla Cattolica di Milano e un Master in Peacekeeping a Roma Tre, ha sempre sognato di diventare giornalista. La sua carriera inizia a quindici anni, quando scrive i primi pezzi per l’Esagono, un settimanale locale. Dopo anni di gavetta viene assunto come inviato dalla Radiotelevisione Svizzera, con sede a Lugano, per la quale realizza diverse inchieste in paesi martoriati dai conflitti come Siria, Iran, e Egitto. Ma è vicino alle coste italiane che Bos, assieme al collega Paul Nicol, mette in luce uno dei casi più torbidi e orribili degli ultimi anni sul fenomeno dei migranti. La sua lucida analisi sulla strage dei profughi libici, lasciati morire a fine marzo 2011 al largo del Mediterraneo, ha indotto la Nato ad ammettere di avere ricevuto una richiesta di soccorso inascoltata.
Con quale lavoro ha vinto il Premio Alpi?
Con Mare deserto, una videoinchiesta giornalistica su 72 profughi libici, scappati dalla guerra civile del proprio Paese e rimasti per due settimane a morire di caldo e di sete nel mezzo del Mar Mediterraneo senza ricevere alcun aiuto. Di questi solo 9 sono sopravvissuti: otto ragazzi e una ragazza. Il Mediterraneo allora pullulava di navi e di velivoli ed era strettamente controllato. Un elicottero militare si era fermato per gettare ai profughi alcune bottiglie d’acqua e un po’ di biscotti. Le forze europee e internazionali erano pienamente consapevoli di ciò che stava accadendo, ma la Nato non ha fatto nulla, mettendo in atto una deliberata omissione di soccorso e permettendo che questa strage si consumasse lentamente.
Ricevere questo premio ha cambiato la sua vita professionale? Se sì, come, in che termini?
Si tratta certamente di un riconoscimento che incoraggia il giornalismo d’inchiesta, il quale negli ultimi anni sta inesorabilmente diminuendo perché richiede un impegno profondo, spesso anche in termini finanziari, che si fatica a sostenere. Fortunatamente io lavoro in una testata pubblica che mi dà gli strumenti e la libertà necessaria per fare i miei servizi. Penso invece ai freelance, spesso obbligati a fare tutto con i propri mezzi: per loro ricevere un Premio come questo è un incentivo ancora maggiore a continuare e spingersi ulteriormente in questa direzione. In quanto a me, è stata una grande soddisfazione personale, che ho condiviso con il coautore dell’inchiesta e con il team della Radiotelevisione Svizzera.
Che valore ha avuto, ha e continua ad avere questo Premio nella realtà giornalistica italiana?
Molto importante, soprattutto per due motivi: primo, perché offre l’occasione di far circolare e far conoscere ottimi lavori giornalistici a un numero maggiore di persone, materiali che molto spesso trovano pochi canali di diffusione in Italia. Secondo, il Premio rappresenta anche un momento di confronto e dibattito tra colleghi e con il pubblico. E’ fondamentale per noi giornalisti vedere cosa fanno gli altri, quali sono i loro metodi di lavoro; è un’occasione per trovare spunti e temi che meritano approfondimento.
Che ricordo ha di Ilaria o, se non l’ha conosciuta, dell’episodio della sua morte? ha rapporti con la famiglia, con i genitori di Ilaria?
Non ho mai avuto la possibilità di incontrarla di persona, però in diverse circostanze ho conosciuto il suo modo di lavorare, la sua caparbietà, il desiderio di raccontare e capire e raccontare le cose come stanno. Ilaria non ha mai avuto timore di voler andare e vedere con i propri occhi anche nelle situazioni più rischiose. Egisto Corradi diceva che “il vero giornalismo è quello che si pratica con la suola delle scarpe”; io credo che anche oggi, nell’era della tecnologia e della condivisione, sia fondamentale che il giornalista si renda conto di persona di ciò che succede e costruisca un proprio pezzetto di verità. Lei lo ha fatto, pagando un prezzo altissimo.
Cosa si è portato dietro da questa storia?
Realizzare Mare deserto è stata un’esperienza umana, più che lavorativa, intensa e forte. Ho stretto rapporti con i nove superstiti: prima che profughi o emigranti, essi sono persone, ognuno con una propria storia, spesso triste e dolorosa. Mi hanno raccontato il loro passato e il lungo percorso geografico che hanno intrapreso per arrivare dai paesi del Corno d’Africa, come Sudan, Etiopia ed Eritrea, sino a qui. Ciò che mi ha più colpito di questa vicenda è che c’erano dei testimoni sopravvissuti in un cimitero come il Mediterraneo, che potevano aiutare a fare chiarezza in questa situazione. L’Onu autorizzava i Paesi membri e alleanze come la Nato a difendere i civili fuggiti dalla guerra, non era possibile lasciare gente su un gommone giorni e giorni, senza che nessuno cercasse di appurare le loro responsabilità. In quei giorni sono stato ascoltato dalla Procura militare di Roma, che ha aperto una denuncia contro ignoti per questa vicenda; nello stesso periodo sono nati esposti in diverse procure in Belgio, in Spagna e in Francia. Grazie a questi sforzi la Nato ci ha rivelato, dopo averlo negato per mesi, che era a conoscenza della presenza dei miganti: ora la vicenda è sul tavolo del Consiglio d’Europa.
Come vede lo stato della gestione degli immigrati nel Mar Mediterraneo?
“Il pessimismo della ragione contro l’ottimismo della volontà”, diceva Gramsci. L’ottimismo si respira a Lampedusa: nonostante qualche tensione, i suoi abitanti aiutano i migranti con dedizione e solidarietà. Dall’altro lato il pessimismo che vedo nell’ipocrisia dell’Europa, i cui rappresentanti su quest’isola sono venuti a piangere davanti alle bare dei profughi con lacrime di coccodrillo. L’Unione Europea sapeva e sa cosa accade. Significativo è il comportamento di Frontex, istituzione destinata a vigilare sui confini esterni dell’Unione Europea, la quale invece delega il ‘lavoro sporco’ ad alcuni Paesi non membri o periferici; per fare un esempio, il numero dei profughi siriani in Europa è una briciola rispetto a quelli accolti nei paesi vicini: 50mila contro i 2,5 milioni ospitati in Libano, Turchia, Giordania, Egitto e Iraq. La morte di migliaia di immigrati pesa su un’Europa che non sa come gestire questo fenomeno e far sì che i migranti vengano salvaguardati. Ciò non significa avere porte aperte per tutti, ma trovare strumenti giuridici e modalità di accoglienza che impediscano queste stragi in mare. Per ora non ci sono stati provvedimenti seri.
Secondo lei l’Europa ha lasciato sola l’Italia nella gestione degli immigrati?
Le responsabilità toccano tutti in vari livelli: l’Italia possiede tuttora una vergognosa arretratezza sulla legge in materia d’asilo, calpestando i diritti e la democrazia sulla gestione dei civili e violando ripetutamente i diritti dei migranti, come ha confermato la Corte di Strasburgo. Per questo motivo non ci si può rifugiare sul fatto che l’Italia sia stata lasciata sola, anche se è vero che per la sua posizione geografica ha un ruolo particolare rispetto agli altri Paesi. Ma non è l’unico: si pensi a Malta, ad esempio, la cui zona di soccorso attribuita secondo le disposizioni europee è immensa rispetto alle sue capacità e alle sue dimensioni.
Ultimamente di cosa si è occupato?
Sono appena rientrato dalla Repubblica Centroafricana, in cui è in corso un esempio di crisi totalmente dimenticata: lì non ci sono interessi politico-economici, non c’è il petrolio come in Sud Sudan. Per questo, i riflettori sono inchiodati sulla crisi di Crimea e il resto viene ignorato con indifferenza. Eppure, la situazione è critica, con oltre un milione di sfollati nel Paese e 100mila persone accampate all’aereoporto di Bangui, la capitale; l’Onu parla già di un genocidio. Spero presto di tornare anche in Siria.
Qual è, se esiste, la differenza tra la Radiotelevisione svizzera e le testate italiane, per quanto riguarda il modo di fare il giornalismo?
La differenza che si percepisce non è tanto riguardo alla professionalità e alla visione giornalistica, ma è questione di spazi. In Italia ci sono tanti colleghi preparati e di lunga esperienza, ma spesso le loro inchieste e i reportages non trovano posto nella Tv italiana e, non raramente, vanno in onda in Svizzera. I servizi giornalistici sono relegati in orari assurdi in seconda serata, a parte qualche piccola eccezione, come Report. Nella televisione svizzera ci sono molti programmi dove questi servizi hanno spazio, come Falò.
Secondo lei quali sono i motivi?
La tv degli ultimi trent’anni ha toccato il fondo e ha abituato il pubblico a programmi pessimi e al trash più ignorante. Non contribuisce ad accrescere il livello culturale dei cittadini – l’originario intento della tv pubblica – ma lo affonda. Io sono convinto che esiste un altro modo di fare televisione e riscuotere ascolti: il canale culturale franco-tedesco Artè, ad esempio, ha un audience importante, perché è il pubblico che apprezza e richiede questo tipo di televisione. Ora, con i canali satellitari e i social media, si stanno creando materiali e mezzi interessanti. Peccato per la Rai, che avrebbe tutte le competenze e le risorse per produrre più programmi di qualità senza sottostare unicamente alle logiche di mercato.
Com’è cambiata la figura del giornalista oggi? Nel mondo di oggi c’è ancora spazio per i grandi inviati?
Gli inviati col sigaro in bocca e taccuino in tasca sono ormai miti estinti che piacciono ai poeti. Oriana Fallaci, Bernardo Valli e Ryszard Kapuscinski oggi sarebbero armati di telecamera e di laptop sempre a disposizione. Gli strumenti digitali sono opportunità fondamentali che i giornalisti, soprattutto quelli del futuro, devono saper utilizzare al meglio. L’informazione ha preso ritmi sempre più veloci, bisogna essere sempre collegati, preparati e pronti ad agire. La nostra professione è profondamente cambiata: il compito principale del giornalista è oggi quello di decifrare e filtrare le continue informazioni che arrivano tramite comuni cittadini, come ad esempio i video caricati su Youreporter. Purtroppo il lavoro del giornalismo, per quanto stimolante, è in generale sottopagato: i freelance ricevono poco e chi lavora a contratto nelle redazioni raramente viene mandato come inviato sul posto ma è costretto a rielaborare dietro una scrivania. Il giornalista è una figura professionale indispensabile e spero che questa difficile situazione con il tempo si risollevi.