Quello dei free press è un popolo di non lettori. Gli editori non investono più un euro nella carta stampata. Gli unici investimenti che si fanno sono nel web”. Arrivano come macigni, categoriche le affermazioni di Mauro Sarti, docente di Teoria e tecnica giornalistica all’università di Bologna. L’occasione è stata la prima lezione di “Word Communication: Media e migranti: linguaggio e strumenti” il corso/laboratorio di giornalismo del Ministero dell’Interno, che ha coinvolto l’Associazione Comunità Aperta, Associazione Ilaria Alpi, Radio Icaro, Onda Libera e la Provincia di Rimini dedicato a giornalisti.
Al centro della questione il giornalismo sociale ma anche il modo in cui il giornalismo tout courte la figura giornalistica si sono formate e trasformate negli ultimi 30 anni. Che il mestiere si sia stravolto in pochi decenni non v’è dubbio. L’ingresso nelle redazioni dei computer e delle connessioni internet è stata una delle rivoluzioni più importanti se non nella storia del giornalismo, quasi…
Fuori da ogni teorizzazione, Sarti ci ha tenuto a mostrare una faccia della medaglia che non sempre viene colta, raramente dai giornalisti e per niente dai lettori: il giornale è un prodotto industriale e come tale va trattato. Con la differenza che la responsabilità della formazione più o meno forte dell’opinione dell’oramai nota “casalinga di Voghera” trasforma questo prodotto in qualcosa di particolarmente delicato e dalla forte responsabilità.
Ma torniamo alla macchina industriale. Dati alla mano, il giornale cartaceo resta fanalino di coda negli investimenti. La grande abbuffata (piccola in realtà, perché i soldi son pochi) la fa il web. Basta entrare nella redazione giornalistica di un grande giornale come Repubblicao il Corriere della seraper notare che le parti più vive, dinamiche e giovani sono le redazioni del web mentre le vecchie firme sono rilegate in una nicchia. Stiamo parlando, comunque di grandi firme, stimati colleghi il cui lavoro non si discute, ma adesso le cose sono cambiate”. Unica eccezione nell’investimento su carta la fa la free press, anche se non nasconde dei nei. I numeri parlano chiaro. Per free press grandi, tipo Metro, Leggo, City, che diffondono dalle 40 alle 50mila copie e che arrivano ad avere 13 edizioni cittadine si impiegano dai 20-25 giornalisti. Pochi. Questo vuol dire che il prodotto è fatto di notizie d’agenzia e poco altro. Dietro a questi giornali ci sono, spesso, grandi editori. City per esempio ha dietro Rcs, mentre Leggo è edito dai poligrafici del Resto del Carlino. Questo vuol dire che non sono sparute esperienze di avventurieri dell’editoria ma realtà importanti. “La parabola è però in discesa. – continua il professore – Leggo chiude in tutta Italia e altre realtà si concentreranno solo su Roma e Milano”. Poca raccolta pubblicitaria e crisi anche in questo settore. Ma la cosa interessante del free press, e ciò che ha spinto i grandi editori a fare concorrenza a se stessi, è che cattura un pubblico di non lettori. Lettori che normalmente non andrebbero a comprare un giornale ma che lo guardano/leggono perché viene loro dato. Si tratta per lo più di donne, immigrati, studenti, giovani. Ed è per questa platea che lo ritengo un esperimento importante nel campo del giornalismo sociale. Perché in questi giornali si possono trovare informazioni di servizio, specialmente per gli stranieri, e possono trovare spazio – anche con linguaggi più semplici – storie che le grandi testate non tratterebbero. Ma come abbiamo detto siamo in parabola discendente, quindi…”. Perché Sarti tiene il punto sullo spazio del giornalismo sociale? Semplice, perché guadagnarlo è costato una grande fatica. Negli anni ’70 chi parlava del sociale era l’ultimo arrivato in redazione, perché si pensava che in quel settore non si potessero fare tanti danni. Poi negli anni ‘80 è cambiato qualcosa nelle redazioni e nella società. L’avvento delle tantissime morti per overdose di eroina e la diffusione dell’Aids hanno spinto chi lavorava nel silenzio (parrocchie, associazioni) a fare pressione politica e a veicolare messaggi su questi temi, affinché certe cose non capitassero più, affinché ci fosse informazione. Ritengo che anche la femminilizzazione delle redazioni abbia contribuito ad avere maggiore sensibilità sui temi sociali”. Vasto e articolato il discorso sulle responsabilità di chi scrive non solo nei confronti dei lettori ma anche degli intervistati. Quando fermarmi nel racconto? Quando fare un passo indietro rispetto alla storia che mi viene raccontata?” chiede un giovane giornalista dalla platea. “Buon senso e sensibilità”. Parola di professore.
Angela De Rubeis