«Giuste o sbagliate che siano, le sentenze vanno accettate per quello che sono». È una lezione di civiltà quella di Manlio Milani, presidente dell’associazione delle vittime della strage di piazza Della Loggia a Brescia. Era il 1974 quando perse sua moglie nella strage. Dopo 37 anni di processi la verità non è emersa, tutti gli indagati sono stati assolti, ma nelle parole di Manlio Milani non c’è rancore, perché «la verità giudiziaria non sempre corrisponde a quella storica», ma attraverso la memoria e gli archivi quella verità può essere ricomposta e diffusa.
Si discute di misteri passati che rivivono nel presente al Premio Ilaria Alpi, nell’incontro Strategia della tensione e impunità delle stragi: piazza Della Loggia tra verità giudiziaria e verità storica. Gli studenti della scuola di giornalismo dell’Università Cattolica di Milano presentano i loro documentari radiofonici che ricostruiscono gli attimi della strage, i processi e come il ricordo delle vittime si tramanda in letteratura e a teatro. I loro colleghi della Walter Tobagi di Milano propongono invece una ricostruzione in video. A moderare il dibattito Roberto Scardova, giornalista Rai, che ha la voce rotta dall’emozione. «Sono troppi i misteri d’Italia cui non si è ancora data risposta – dice – Brescia, Bologna, Ustica, piazza Fontana sono tutte pagine nere senza colpevoli».
Il primo chiamato in causa, per commentare un passato di lotte concluse con le assoluzioni di ogni imputato, è proprio Manlio Milani: «Ero convinto che il processo su piazza Della Loggia avrebbe avuto un esito diverso, che almeno due persone sarebbero state condannate». Ma all’assoluzione era preparato, «perché anni di depistaggi ci hanno insegnato che dobbiamo leggere al rovescio il paradigma di Pasolini abbiamo i nomi, ma non le prove. Noi abbiamo le prove, ma i nomi no».
Silvia Guarneri, avvocato di parte civile nel processo concluso nel 2010, interviene sui motivi per cui la verità è rimasta lontana: «Non sono stati fatti sufficienti studi sulle testimonianze, gli antefatti, il contesto. È stata una scelta dettata da un’esasperazione di garantismo, principio sacrosanto, ma praticato nei processi su Brescia molto più che altrove».
Quale speranza rimane allora, dopo 37 anni, se i servizi segreti tacciono, le prove non sono considerate tali, la verità sembra una parola inammissibile? A rispondere è il giornalista Daniele Biacchesi, che come Manlio Milani va oltre la realtà processuale: «Il nostro obiettivo è rimettere insieme i pezzi del mosaico, riorganizzarlo e consegnarlo al pubblico, perché i misteri d’Italia sono misteri che riguardano tutti, e diffondere queste storie è un dovere». Nella speranza che, come a Brescia è nato l’archivio della Casa della Memoria, «si costruisca un grande archivio pubblico della memoria, accessibile a tutti».
Giulia Destefanis