Il reato di associazione mafiosa e il sequestro preventivo dei beni sono fondamentali per la lotta alla mafia, ma rischiano di rimanere strumenti sterili se non sono accompagnati da una risposta collettiva da parte della società civile e delle istituzioni locali: una risposta che per prima deve essere data alle vittime della criminalità organizzata.
Di questo si è parlato al Premio Ilaria Alpi a Riccione, nell’ambito del Progetto Est – citizens against invisibile mafias – promosso all’interno del programma dell’Unione Europea “Europa per i cittadini”, dall’associazione Ilaria Alpi in collaborazione con Flare Network, Romanian Centre for Investigative journalism e il Centro studi e ricerca sulla sociologia giuridico penale, la devianza e il controllo sociale dell’Università di Bologna.
Paura e isolamento al nord
Il radicamento della mafia nelle regioni del nord Italia, e in particolar modo all’interno delle istituzioni locali, è ormai un dato di fatto, come dimostrano alcune operazioni portate avanti nel corso degli ultimi anni. Operazioni rese possibili grazie al coraggio di cittadini e rappresentanti delle istituzioni, come ad esempio Modesto Verderio, Consigliere Comunale di Lonate Pozzolo, che con la sua denuncia ha permesso l’arresto di 39 esponenti della ‘ndrangheta in Lombardia.
Avere coraggio nel nord Italia si paga a caro prezzo: l’abbandono da parte delle istituzioni e della cittadinanza. Basti pensare che, alle elezioni successive, Verderio ha ottenuto solo il 20% dei voti. Un silenzio che accomuna la storia di Verderio a quella di Rossella Mannarino e delle sue sorelle, al centro di una complessa storia di usura a Santena, piccolo centro in provincia di Torino: “Noi siamo state emarginate dalla nostra comunità, abbiamo capito che nel momento in cui raccontavamo la nostra storia la gente se ne andava come se fossimo infette. Siamo state le uniche, insieme a una coppia di coniugi, a denunciare l’usuraio, su circa 60 persone coinvolte. Eravamo sole prima e lo siamo ancor piu adesso dopo la denuncia”.
Omertà e silenzio vanno di pari passo, come confermano le parole del parroco della cittadina piemontese: “Di usura a Santena non si parla, come non si parla della vicinanza del sindaco a Vincenzo D’Alcalà”, esponente di spicco della criminalità organizzata locale, da sempre vicino alle istituzioni locali.
Il paradosso dell’omertà
Sempre nel nord Italia, a Busto Arsizio, in provincia di Milano, si è cominciato a parlare di criminalità organizzata grazie al Movimento “Ammazzateci tutti”, che ha portato i temi della mafia e dell’antimafia sociale nelle scuole della città. Un paradosso, dal momento che “una della mafie più potenti d’Italia si è insediata a Busto Arsizio – dichiara l’europarlamentare Rosario Crocetta -. Nel mese di aprile sono stati effettuati arresti per estorsione, grazie alla denuncia di una cittadina di origine siciliana che ha convinto due cittadine di Busto. La presenza di fenomeni di estorsione significa che in quell’area non esiste solo una mafia generale, ma anche un radicato controllo del territorio”.
Per tornare alla cronaca, nel corso di una delle ultime indagini portate avanti dalla Procura di Gela sono state arrestate 63 persone, un numero elevato dei quali residente a Busto Arsizio, compresi numerosi imprenditori. Quindi, in teoria, la città lombarda dovrebbe essere sulla carta la capitale dell’antimafia nel nord Italia: “Invece no – continua Crocetta – c’è paura tra la popolazione, come del resto in altri piccoli e medi centri dove l’omertà è la norma”.
La risposta della società civile
Fondamentale, quindi, il ruolo della società civile nel contrasto alla criminalità organizzata, come sottolinea Massimo Brugnone, coordinatore regionale del movimento “Ammazzateci tutti”: “In Lombardia sono presenti tutte le mafie. Il nostro lavoro vuole essere di pubblica denuncia ma anche di creazione di una cultura pubblica, andando a tracciare una linea di confine che permetta ai ragazzi di riconoscere le mafie e insegnare in questo modo un modello di comportamento”.
Un esempio di risposta della società civile è inoltre rappresentata dal caso di Nino Miceli, imprenditore di Gela che denunciò il pizzo negli anni ’90. La sua è una storia di isolamento progressivo e che lo ha portato ad andare via dalla sua terra, a cambiare città e identità. Ma da quell’esperienza hanno preso vita esperienze positive: “Oggi a Gela ci sono oltre 150 casi aperti di persone che hanno denunciato il pizzo – dichiara Crocetta -, questo ha permesso l’arresto di 950 persone negli ultimi sei anni: questo dimostra che la condizione di isolamento avviene laddove non c’è una mobilitazione da parte della società. Quando penso all’antimafia penso a un insieme di rapporti che uniscono la magistratura, le forze dell’ordine, la società civile, i comitati di quartiere”.
Gli enti locali mai parte civile
In questo quadro emerge in tutta la sua evidenza l’assenza degli enti locali, come confermato da Crocetta: “I comuni non si costituiscono mai parte civile nei processi per associazione mafiosa. Sembra quasi che la politica e l’amministrazione pubblica non debbano fare parte dell’antimafia. Non si possono abbandonare i cittadini che hanno denunciato i mafiosi, è una cosa estremamente grave”.
La risposta deve quindi venire da tutti i fronti, come dichiara Alberto Perduca, procuratore della Repubblica presso la Procura di Torino: “Nove giorni fa la Procura di Torino ha provveduto all’esecuzione di 150 misure di custodia per reati relativi all’articolo 416bis. Queste persone risultano appartenere alle locali sparse sul territorio della provincia. Certamente l’attività svolta dimostra che le associazioni di stampo mafioso possono prosperare anche in territori diversi da quelli di origine. Ma dimostra allo stesso tempo che possono essere sconfitte. Abbiamo effettuato controlli non solo sulle persone ma anche sui patrimoni: abbiamo effettuato sequestri preventivi su 70 indagati, beni per un valore stimato di circa 315 milioni di euro. Ci sono una serie di iniziative che dimostrano l’esistenza di azioni perseguibili attraverso l’articolo 416bis anche nel Nord Italia”.
Luci e ombre
Gli fa eco Nicola Gratteri, procuratore aggiunto della Repubblica presso il tribunale di Reggio Calabria: “L’Italia è il paese con la legislazione antimafia più evoluta al mondo. Questo non vuol dire che il sistema funziona in maniera efficiente, avremmo bisogno di nuove iniziative che i governi negli ultimi 20 anni non hanno fatto”. Per Gratteri “questo governo ha fatto cose buone, ad esempio l’abolizione del patteggiamento in appello, ma rischia di fare cose devastanti nella lotta alla mafia e alla corruzione. Ha presentato progetti estremamente pericolosi, come l’autonomia della polizia giudiziaria dal pubblico ministero e le intercettazioni telefoniche”.
A livello europeo, inoltre, manca una linea comune per quanto riguarda il contrasto alla criminalità organizzata. Cosa può fare la magistratura per perseguire reati di associazione mafiosa se non esiste un equivalente dell’articolo 416bis in Europa?
All’interno dell’Unione, l’assenza di un reato europeo di associazione mafiosa pone seri problemi per la cooperazione giudiziaria. Ma molte cose sono state fatte negli ultimi anni. “Ci sono diverse iniziative in ambito europeo per armonizzare la legislazione in materia – sottolinea Alberto Perduca -. Nell’arco degli ultimi vent’anni l’Europa ha prodotto molto nell’ambito della giustizia, riducendo drasticamente i tempi per lo scambio di informazioni: le istituzioni comunitarie si sono fatte promotrici dell’armonizzazione delle legislazioni penali, sono state introdotte regole per facilitare la cooperazione. Non dobbiamo inoltre dimenticare uno strumento estremamente importante come il mandato d’arresto europeo e l’istituzione di agenzie per facilitare la cooperazione, come Eurojust e Olaf. Questo attivismo diventa però privo di effettività nel momento in cui i paesi membri non recepiscono le normative comunitarie.
Conclude Crocetta: “La situazione della mafia in Europa è più complessa di quello che pensiamo. Stiamo assistendo a una vera e propria globalizzazione dei fenomeni criminali, Cosa nostra è il modello organizzativo della criminalità nel terzo millennio. Basti pensare che, secondo uno studio della Commissione Europea, nessuno dei 27 paesi membri dell’Unione è esente da pizzo”.
di Gianmaria Vernetti