Marcel Mettelsiefen: “Per fare l’inviato di guerra bisogna fare rete”

Marcel Mettelsiefen, fresco vincitore della “Menzione speciale Miran Hrovatin per la miglior fotografia” e di una menzione speciale della Giuria al Premio Ilaria Alpi è l’autore di Children on the Frontline: Syria (Syrie, la vie obstinément), un reportage cruciale per avvicinarsi alla comprensione dei rischi corsi dal giornalista di guerra. Quando si accosta il termine guerra a quello di giornalismo diventa possibile discutere della più rischiosa area d’azione di questa professione. Quello che non è altrettanto spontaneo è il superamento di questa ovvietà, rendersi cioè conto in cosa consista realmente lavorare in zone dove bombardamenti continui scandiscono giorno e notte. Abbiamo avuto occasione di parlare con Marcel, scoprendo cosa sia davvero necessario per sopravvivere in zone instabili.

Come sei arrivato in Siria?

Mi occupavo del paese dal 2011, a partire da quell’anno ho cominciato ad andarci con frequenza. In questo modo ho avuto la possibilità di vedere la rivoluzione dalle sue prime fasi, con le dimostrazioni pacifiche degli studenti, fino alla lotta armata di stampo politico e religioso. Oggi il paese è spaccato in due, con i conservatori islamici da una parte e i moderati dall’altra.

Era la prima volta che visitavi quelle zone?

Mi occupo di Medio Oriente da quattordici anni, tramite svariate pubblicazioni in Germania. In questo lavoro è importante riporre fiducia nelle persone con cui lavori, creare rete, mantenerla salda: in poche parole sapere che qualcuno ti copre le spalle.

Quanto è difficile entrare nella vita delle persone che riprendi con la tua videocamera, come in Children on the Frontline: Syria?

Come in zone di pace è la disponibilità dei singoli a determinare quanto sarà difficile coinvolgerli in quello che vuoi fare. Dimostrandomi disponibile non ho mai avuto grossi problemi: è come li approccio che mi permette di guadagnare la loro fiducia, facendo capire che voglio solo raccontare la loro storia. Dipende molto dalle tue inclinazioni personali, sia ben chiaro. Anche solo uno sguardo può decidere la sorte del rapporto con uno di loro.

Quindi è cruciale essere delle persone aperte?

Certo. Ma è anche basilare saper sparire. Quando mi trovo in un paese in guerra devo essere invisibile, evitando di interagire e soprattutto di interferire con lo svolgimento degli eventi. Essere socievole, ma sapere anche quando è il momento di levarti di torno.

Oggi è più pericoloso fare il giornalista rispetto a vent’anni fa?

Svolgendo questo lavoro è facile rischiare, e oggi molti giovani giornalisti si recano in aree di solito studiate da reporter molto più navigati. Non è questione di coraggio, né di sconsideratezza, ma di persone che possono proteggerti. Ogni viaggio che intraprendevo permetteva alla mia rete di contatti di crescere, ed è solo grazie alle conoscenze che ho maturato negli anni che mi è stato possibile fare il giornalista di guerra e parlarne oggi al Premio Ilaria Alpi. Ho smesso di andare in Medio Oriente nove mesi fa, proprio perché la mia rete era sotto attacco: non erano al sicuro loro, non avrei potuto esserlo io.