Beni confiscati: non solo simboli, ma risorse per lo Stato

I beni confiscati non sono solamente il simbolo della vittoria dello Stato sulla criminalità (organizzata e non). Né è possibile ridurli a mero strumento di propaganda quando si esalta il loro crescente numero come emblema della capacità di questo o quel governo di combattere le mafie in Italia. I beni confiscati dovrebbero diventare, prima di tutto, una fonte di reddito sana per i lavoratori e i soci delle cooperative che li prendono in gestione; oppure, fatto salvo l’uso concesso alle forze dell’ordine, dovrebbero servire ad ampliare la gamma dei servizi che un Comune è in grado di garantire ai propri cittadini, attraverso la trasformazione di appartamenti in case popolari o di beni immobili in luoghi di incontro, scambio culturale e crescita.

Tutto questo è possibile, però, solo se nelle amministrazioni è radicata la volontà politica di investire nei progetti di riutilizzo dei beni confiscati. Sembra la solita litania, volta genericamente a prendersela con i “politici” di ogni parte e schieramento, ma non è così, perché quando tale volontà la si riscontra è possibile giungere a risultati apprezzabili. Ad esempio, nel riminese è accaduto in due comuni di colore politico diverso: a Rimini, dove l’amministrazione dopo i contatti con la Prefettura e alcune associazioni locali, è riuscita a farsi avanti per la gestione di un appartamento che sarà parte integrante del progetto Housing First; e a Bellaria,  dove il ristorante “Taverna degli Artisti” diventerà presto una Casa della Salute.

Un percorso a ostacoli

Ma la politica locale non è onnipotente, perché per accorciare i tempi che intercorrono dal sequestro alla rassegnazione (mantenendo intatte le dovute garanzie per gli imputati) servono strumenti legislativi adeguati, che si sono trovati solo parzialmente con il nuovo codice antimafia (decreto legislativo n.159 del 6 settembre 2011). Un codice che, in ogni caso, rappresenta un passo in avanti rispetto alle vecchie normative. È inoltre imprescindibile una riforma radicale dell’Agenzia per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata (ANBSC) che possa non solo mettere in contatto prefetture, comuni e direzione dell’Agenzia attraverso un coordinamento delle diverse azioni – come è possibile ad esempio che un Comune non sappia o venga a sapere con estremo ritardo della presenza di un bene confiscato nel proprio territorio? – ma che tenga anche conto di coloro che prendono in gestione un bene. Un esempio su tutti: mancano uffici dedicati (soprattutto territoriali) che garantiscano una consulenza per intercettare i bandi (nazionali e, soprattutto europei) per l’ammodernamento delle strutture, senza che si debba attendere una legge ad hoc che sblocchi qualche fondo (vedi la legge varata dalla Regione Emilia-Romagna). Manca molto spesso un controllo ex-post, ossia dopo che il bene viene ri-assegnato: non è solo interesse del Comune che mette a bando l’utilizzo di un bene, ma anche dell’Agenzia che su un bene a investito in termini di risorse umane e di tempo. Non si tratta nemmeno di controllare che gli effettivi gestori non abbiano contatti con quelli “vecchi” (compito che deve essere lasciato in capo alla magistratura); piuttosto è necessario che il bene o l’impresa siano gestite in linea con i progetti delineati nei bandi e che possano stare (nel caso delle imprese) sul mercato autonomamente, dopo un periodo di fisiologica transizione. Un compito arduo, certamente, ma che non può essere lasciato ai margini, solo per la difficoltà insita nel far ripartire un’attività produttiva.

Le problematiche dell’amministrazione giudiziaria

E in questo contesto, si inserisce il compito degli amministratori giudiziari. Stando al codice antimafia e tentando di semplificare al massimo, gli amministratori sono coloro che dovrebbero garantire un indolore passaggio di consegne tra i vecchi gestori e i nuovi, o per lo meno garantire che i vecchi proprietari, qualora siano trovati innocenti, possano riprendere senza (eccessivi) danni l’attività imprenditoriale o i propri beni immobili. Ma questo compito è spesso molto difficile, se non addirittura impossibile. Come spiega il Dr. Giancarlo Ferrucini, amministratore giudiziario, tra gli altri, dello storico night Pepenero, “quando il sequestro interviene per bloccare l’attività principale dell’azienda, non è possibile continuare l’attività imprenditoriale”, ragione per cui un amministratore giudiziario si trova bloccato nella sua azione. La situazione è meno complicata, quando l’attività imprenditoriale è lecita e il sequestro avviene per motivi collaterali rispetto al core dell’azienda. I problemi, però, possono emergere comunque perché, sostiene Ferrucini “le banche e i creditori divengono più sospettosi: emergono perplessità quando un bene è sotto sequestro, ma nella realtà il fatto che un’azienda sia temporaneamente in mano al Tribunale dovrebbe rassicurarli”; e questo potrebbe rappresentare un blocco fondamentale per le imprese poste sotto sequestro. La pressione di banche e creditori potrebbero portare anche a una immotivata chiusura dei rubinetti per aziende sane, che si vedrebbero private della liquidità necessaria per andare avanti.

Di come questi problemi sono affrontati nel contesto riminese, qual è la situazione in tema di confische nel territorio e quali le buone pratiche per giungere ad un riutilizzo dei beni, se ne parlerà nelle giornate del Premio Ilaria Alpi. L’appuntamento è per giovedì 4 settembre alle ore 10:00 presso il Palazzo del Turismo di Riccione. L’ingresso è libero.

Davide Vittori