Barbara Serra: “Nei TG italiani poco spazio alle crisi internazionali”

Barbara Serra, milanese, è uno dei volti televisivi più noti nel Regno Unito. I suoi studi l’hanno portata a Londra, dove negli anni ha collezionato una serie di prestigiosi incarichi, dalla BBC a Channel 5, come giornalista e conduttrice (diventando la prima non madrelingua a condurre un tg in prime time in Gran Bretagna). Per la Rai ha condotto Cosmo e partecipato a TVTalk su Raitre e nella sua esperienza di inviata si è trovata in alcune delle regioni “calde” del mondo, come la Striscia di Gaza, e a raccontare eventi come il viaggio di Benedetto XVI in Palestina. Dal 2006 collabora con Al Jazeera ed è uno dei giornalisti di punta di Al Jazeera English. Nei giorni del Premio Alpi Barbara Serra modererà il panel L’Europa tra Obama e Putin: il ruolo dei media nelle crisi internazionali, con Giuliano Battiston, Giovanna Botteri, Giulietto Chiesa, Gigi Riva e Kevin Sutcliffe, previsto per giovedì alle 21 a Villa Mussolini. Venerdì alle 18:00, invece, alla Galleria Palacongressi di Riccione, presenterà il suo libro Gli italiani non sono pigri, apprezzata inchiesta su meritocrazia, competizione e ricerca del lavoro degli italiani all’estero.

Buongiorno Barbara. Il dibattito del ruolo nei media nelle crisi internazionali sarà certamente caldo e di attualità, viste le tensioni e i conflitti in corso che tanto spazio stanno trovando sui notiziari. Una domanda forse banale, ma certamente interessante per i lettori: che differenze trovi nel trattamento di queste notizie in Italia e in Inghilterra?

Non trovo differenze tanto nel trattamento ma nel quanto vengono affrontati certi temi. Forse su quotidiani e riviste non noto tanta differenza, che è enorme invece in tv. Soprattutto in Italia, l’audience generalista viene raggiunto tramite la tv. Non voglio certo paragonare la Rai ad Al Jazeera o Cnn, che sono canali internazionali, ma paragono un tg della sera in prima serata della Bbc a un equivalente di Rai o Mediaset. In Italia si parla molto poco degli esteri in generale e quando lo si fa si fa in maniera poco dettagliata. La grande differenza è che se ne parla di più e in maniera certamente più approfondita in Gran Bretagna. Di conseguenza, il pubblico in Italia è meno istruito su temi enormemente complicati ma importanti per qualunque cittadino. È una differenza molto marcata anche ma non solo quando ci sono crisi di livello o serietà come quelle in corso. E bisogna dire che non è insolito per un telegiornale britannico aprire con una notizia dall’estero.

In effetti, pare che salvo rari casi, in Italia si continui con un’impostazione che risale agli albori della televisione: bisogna aprire con un “pastone” politico, e poi tutto il resto.

Ciò ovviamente si deve al fatto che, in Italia, la politica ha più influenza sui tg e sul giornalismo in generale. Certo, se sta succedendo qualcosa di gravissimo si apre con l’Iraq e le decapitazioni di massa, altrimenti si può notare (anche da parte del comune telespettatore) una certa pressione a dare evidenza a qualunque cosa stia succedendo nella sfera italiana.

Può essere dovuto solo al peso della politica?

C’è più influenza politica, certo, e poi c’è il fatto che si perde audience. È complicatissimo spiegare la crisi a Gaza o l’Isis. Se il programma perde il pubblico per i primi 30 secondi, lo perde per tutto il programma. Nasce però un circolo vizioso: è difficile “vendere” (mi si passi il termine) queste storie al grande pubblico perché è meno informato, ma meno notizie riceve lo spettatore meno ne sa.  I telegionarli possono fare fino a un certo punto: in Italia manca la cultura dell’approfondimento, dei lunghi documentari. In Gran Bretagna può capitare che i documentari vengano trasmessi anche in prima serata, in Italia, tranne rare eccezioni, il massimo a cui si può assistere è un talkshow dove in teoria si approfondiscono certi temi, in pratica appare come la solita arena per i soliti volti noti… non certo un documentario. A proposito di eccezioni, quando sono stata in Italia ad agosto ho visto un programma su Rai News 24, condotto da Monica Maggioni, con un grande approfondimento sull’Iraq. A volte ci sono casi straordinari che meritano di essere segnalati.

È anche una questione di costi?

In Gran Bretagna, i TG indipendenti e anche Sky aspirano ad elevarsi al livello qualitativo della BBC, la rete pubblica priva di pubblicità. Ed è anche questione di soldi: fare bene gli esteri costa una fortuna, basti pensare ai costi di un inviato, tra viaggio, assicurazione etc. Nelle redazioni italiane forse è visto come uno spreco. Ed è anche una questione storica: la politica estera italiana è per lo più un riflesso di quella americana, c’è un ruolo meno chiave. Il Regno Unito, invece, pur vivendo parte della sua politica estera come riflesso di quella americana, mantiene un ruolo più attivo, basti pensare alla guerra contro Saddam Hussein. Una certa attenzione agli esteri si deve anche a un coinvolgimento storico risalente all’impero britannico.

Non è certo la prima volta che tante guerre avvelenano contemporaneamente il pianeta. Ma questa estate pare che ci sia particolare attenzione da parte dei media su tre o quattro conflitti nello specifico: Gaza, Ucraina, Siria, Iraq, con qualche accenno al caos libico e nigeriano. Come mai, secondo te? Si deve forse al timore dell’estremismo jihadista? O per la “vicinanza” di Palestina e Ucraina all’Europa?

Ci sono due ragioni. Innanzitutto non eravamo nel mezzo di un enorme scandalo politico o qualche dramma di caratura nazionale che toccasse le corde della sensibilità degli italiani. In secondo luogo, queste storie possono avere un impatto diretto sull’Italia: se giunge energia dall’Ucraina, le ripercussioni di cosa sta accadendo lì si avvertono su qualsiasi italiano, anche su chi si dice disinteressato sulle questioni internazionali.
La natura jihadista dello stato islamico fa certamente paura, ma comincia a spaventare anche che i rifugiati da quelle regioni continuano ad arrivare in Italia. Non si può guardare la crisi dello stato islamico senza capire la crisi antica del medioriente. L’Isis non nasce come minaccia all’occidente – pur essendolo, certamente – ma come guerra tra sciiti e sunniti, una guerra che va avanti da anni e ha causato l’afflusso di rifugiati sulle nostre coste. Come si può ignorare? Anche se forse non possiamo fare molto come Italia, sul piano internazionale, da cittadini possiamo provare a capire cosa succede, leggendo tanti giornali, guardando tanti TG. Quando sai di più puoi capire quando vengono dette certe scemenze in televisione…

Il Premio Alpi è anche occasione di promozione del buon giornalismo e degli esordienti nel settore. Che consigli daresti a chi volesse iniziare il percorso in questa carriera?

Primo è di essere davvero onesti con sé stessi e capire se si ha la passione necessaria per poter poi fare tutti i sacrifici che questo lavoro richiede. In certi casi significa fare inchieste, mesi di lavoro undercover, o nei posti più disastrati del mondo per rischiare la propria pelle (come insegna proprio Ilaria Alpi) . In generale bisogna essere interessati. Quando qualche aspirante giornalista non sa dirmi quale tg guarda o quale giornale legge, avverto una mancanza di passione. A volte è facile restare abbagliati da certi aspetti di un lavoro come questo, che è interessante e affascinante. Però bisogna pensare che se non ci sono la curiosità di base, la sfacciataggine, lo sforzo di andare controcorrente, l’interesse e l’onesta, non si può vincere in un ambiente così ipercompetitivo.
Nel mio libro parlo molto di competizione, e propongo una riflessione: in Italia parliamo di meritocrazia senza parlare di ambizione e competizione. Molti ragazzi italiani a Londra non sono in grado di competere, come se in Italia fosse visto male. “Meritocrazia” significa lavoro al migliore, non lavoro per tutti. Inoltre, siccome il mondo del giornalismo è così competitivo, non bisogna guardarsi attorno e guardare i lavori di oggi. A chi venisse da me dicendomi “Voglio condurre il TG1” dirò che così com’è quel tipo di giornalismo tra 10 anni non esisterà più. Non bisogna sognare di avere i lavori che esistono oggi, ma si deve stare attenti a come stanno cambiando queste professioni, prevedere i lavori di domani. Al Jazeera è un esempio di qualcosa che è stato sottovalutato alla nascita, ma che poi ha dato i suoi frutti negli anni. Bisogna essere creativi, insomma. Il giornalismo è storie e idee.

Marco Rizzo