Lucia Goracci, coraggio è bussare alla porta e fare dieci domande

A pochi giorni alla scadenza del bando del Premio Ilaria Alpi 2014, gli studenti della Scuola di Giornalismo de La Cattolica di Milano proseguono il viaggio nella storia del Premio intitolato a Ilaria Alpi che quest’anno compie vent’anni intervistando i vincitori e i protagonisti. Oggi Laura Molinari ha intervistato Lucia Goracci, vincitrice nel 2011. 

Ha viaggiato in tutto il mondo per raccontare i più importanti teatri di crisi e di guerra degli ultimi anni. «Perché è così che si fa questo mestiere: si va sul posto per capire come stanno realmente le cose», dice Lucia Goracci, inviata di esteri di Rai News 24 dall’Ucraina, dove si sta assistendo alla trasformazione di una crisi in guerra civile.

Con quale lavoro hai vinto il Premio Ilaria Alpi? 

Ho vinto con il racconto della guerra civile libica del 2011. In particolare mi sono concentrata sul conflitto di posizione nel fronte Est della Libia. Lì dove iniziò la ribellione guidata dalla città di Bengasi. Quindi ho seguito la faticosa avanzata degli insorti libici: un esercito improvvisato, di ventura, deciso però a conquistare Sirte, la città d’origine di Muammar Gheddafi quindi anche il centro più difeso e militarizzato del Paese.

Ricevere il premio ha cambiato la tua vita professionale? Se sì, in quali termini?

Provo affetto e una grande stima per la memoria di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Ricordo quando furono uccisi a Mogadiscio. La notizia della loro morte mi colpì molto. Io stavo studiando per il concorso da praticante giornalista della Rai. Anche Ilaria aveva sostenuto la stessa selezione qualche tempo prima. Lei era molto brava, sapeva l’arabo. Mi piaceva molto il suo modo di raccontare: partiva sempre dal basso. Quindi, sì: vincere quel Premio è stato molto importante.

Nella realtà del giornalismo italiano è importante avere un Premio come quello dedicato ad Ilaria?

Assolutamente sì perché è un Premio che spesso viene assegnato a chi racconta le aree di crisi, a chi documenta quello che succede fuori dal “nostro cortile di casa”. Questo è un tipo di informazione che viene erroneamente considerata periferica, marginale, non centrale nella vita degli italiani. In questo ambito del giornalismo si parla delle guerre soprattutto dal punto di vista di chi le subisce, delle vittime. È fondamentale allungare uno sguardo sul mondo, proprio perché spesso l’informazione italiana è autoreferenziale, viziata da provincialismo. Il Premio Ilaria Alpi dà un riconoscimento anche ai lavori stranieri. È una boccata d’ossigeno anche per l’informazione televisiva di cui c’è assoluto bisogno.

Quali sono secondo Lucia Goracci i valori principali del lavoro portato avanti dalla Alpi che dovrebbero anche caratterizzare il percorso di chi vuole diventare giornalista?

Il coraggio. Ilaria aveva un coraggio tale che l’ha uccisa perché voleva avvicinarsi alla verità, perché non si fermava al lato più superficiale degli avvenimenti ma cercava di guardare al di là dell’apparenza. Secondo me questo è l’elemento cardine: ovunque il vero giornalista si muova, non soltanto in un teatro di guerra o in una situazione di crisi ma anche facendo giornalismo d’inchiesta, egli ha il dovere di avvicinarsi il più possibile laddove le cose accadono. Così come Ilaria Alpi e Miran Hrovatin facevano. Questa è la missione. Un mandato al quale oggi si è tentati di abdicare perché c’è la crisi economica, i mezzi sono ridotti ma anche perché ci sono i social network, che consentono ai protagonisti degli eventi di raccontarsi, ma non è la stessa cosa. Quello non è giornalismo. Il giornalista arriva sul posto, non si fa convincere dalle apparenze né da quello che gli viene raccontato dai tweet. Certo, magari giunge in un luogo proprio seguendo la scia dei Tweet ma poi prosegue facendo il suo lavoro, che consiste nel chiedere, nel domandare. E se non sei convinto delle prime dieci risposte, fai altre dieci domande e se neanche quelle ti convincono vai alla casa accanto, alla strada accanto. Conoscere in profondità la realtà è il frutto del mestiere, dato dall’esperienza del  giornalista e dalla sua auspicabile onestà intellettuale. E’ quello che fanno molti giovani freelance, è quello che ha fatto Andry Rocchelli, appena morto in Ucraina mentre faceva il suo dovere. Epperò i giovani non dovrebbero mai morire e morire così.

Come si affrontano realtà difficili da raccontare?

Il lavoro del giornalista consiste proprio nel cercare di capire, andando oltre l’evidenza. Questo è l’aspetto più complicato specialmente per il cronista che si muove nei teatri di guerra. Egli è vittima di tensioni contrapposte, di opposte propagande, di verità in conflitto. Non soltanto i regimi ma anche chi si ribella poi vuole avvincerti alla sua causa. Non solo Saddam Hussein o Muammar Gheddafi ma anche chi gli si oppone fa propaganda a proprio favore, magari inconsapevolmente, ma agisce così perché è comunque emotivamente coinvolto dagli eventi e quindi vuole conquistarti. Perciò il giornalista è colui che deve capire. La verità non sta mai nel mezzo. Occorre lavorare per cercare almeno di avvicinarsi ad essa il più possibile. Inoltre il confronto con i colleghi è fondamentale per raccontare la realtà nel modo migliore. In alcune situazioni bisogna capire insieme fino a dove ci si può spingere, dove è pericoloso andare.

Dov’è la verità nel caso Alpi?

Le ammissioni sul caso non sono colpa di un cattivo giornalismo ma di chi ha ritenuto opportuno non approfondire elementi di investigazione evidenti, da cui invece emergeva la necessità di fare ulteriori indagini. Eppure il lavoro giornalistico di inchiesta si è avvicinato molto alla verità sulla morte di Ilaria Alpi. Come in tanti casi italiani però la verità risaputa non diventa verità giudiziaria.

Laura Molinari