Mauro Rostagno e gli appunti dimenticati: forse le prove della “trattativa”

Un foglietto di carta, pochi appunti scritti a mano, i nomi di uomini delle istituzioni e funzionari, e poi “Questura, Procura”, “Circolo Scontrino” (alias Loggia Massonica Iside 2), l’esecuzione del magistrato Giangiacomo Ciaccio Montalto. Mauro Rostagno forse aveva capito tutto, prima di tutti: e se una parte dello stato avesse deciso di coprire i mafiosi, nell’interesse dei soliti noti?

La famosa trattativa tra mafia e Stato, le connivenze e le connessioni tra servizi segreti deviati, mondo degli affari, logge massoniche, cosa nostra e morti ammazzati fanno capolino nell’aula bunker “Giovanni Falcone” di un tribunale stranamente poco presente sulle cronache ma fondamentale. A Trapani, il processo che dovrebbe rivelare la verità sui mandanti e gli assassini di Mauro Rostagno si è aperto solo da poche settimane, ma si può dire che sia entrato già nel vivo. E disvela un possibile intreccio di interessi dietro la morte del sociologo e giornalista siciliano d’adozione. È già stato sentito il questore Rino Germanà, scampato a un attentato mafioso, che da subito indicò la mano di Cosa Nostra quando era di stanza a Trapani. Hanno deposto i carabinieri e il dirigente della Digos Giovanni Pampillonia che batterono altre, forse improbabili piste. È già salita sul banco dei testimoni la figlia Maddalena Rostagno, avvilita dai depistaggi nel corso degli anni e dalle incursioni nella vita privata della difesa. E proprio in questi giorni, in una lunga e intensa deposizione su due udienze, è intervenuta la compagna di una vita di Mauro, Chicca Roveri. Fu la prima a giungere sul posto quel 26 settembre 1988, in una strada sterrata a due passi dalla comunità Saman che Mauro co-gestiva e che raggiungeva, come ogni giorno, dalla sede dell’emittente locale RTC. In quella “trazzera” buia (perché la centralina dell’Enel era stata manomessa, si scoprì in seguito), la macchina di Mauro ostruiva il passaggio a 200 metri dalla sua destinazione: lui era lì, seduto e immobile, il capo chino, un colpo alla spalla, uno alla testa. Un commando lo aveva seguito con un’auto rubata mesi prima, bloccato, e crivellato di colpi. A riferire a Chicca dell’agguato era stata Monica Serra, collaboratrice di RTC, che si era salvata rannicchiandosi nell’auto dopo essere stata spinta da Rostagno. “Mi sono appoggiata su di Mauro, l’ho accarezzato, gli ho parlato. Gli ho sfilato via la fede che avevamo comprato pochi giorni prima, e mi sono trovata con le mani sporche di sangue. Mi accorsi subito che era morto.” Chicca ha parlato con lucidità, cercando di non tradirsi cedendo alle emozioni, dando una grande lezione di dignità. Lei, che è stata accusata dell’omicidio del suo stesso uomo, vittima del chiacchiericcio, il “curtigghio” manovrato ad hoc tra le vie trapanesi nel metodo di demolizione dell’eroe antimafia Rostagno, cede solo quando si lascia scappare che “le indagini in questi anni sono state gestite da inetti o cretini oppure sono state depistate volontariamente.” E Chicca, a cui lo Stato non ha mai chiesto perdono, quasi si rimangia quelle parole e chiede lei scusa per quanto appena detto. Ma non manca di dire, convinta che “Mauro ha certamente scoperto qualcosa di grosso, che dà fastidio ancora oggi”.

 

Mette un po’ tristezza vedere così poca attenzione al processo Rostagno sulle colonne dei quotidiani nazionali. Come detto, nell’aula Falcone riecheggiano nomi e fatti che dovrebbero essere succulenti per qualunque giornalista: la punta di un iceberg che potrebbe svelare molto. C’è la mafia di Vincenzo Virga, il capomafia trapanese imputato come mandante, lo stesso a quanto pare tirato in ballo da Marcello Dell’Utri quando deve minacciare l’imprenditore sportivo Garaffa. C’è uno dei presunti killer oggi alla sbarra, Vito Mazzara, tanto fortunato da vedersi revocare il 41 bis, pare perché identificato come “pezzo di storia” della mafia trapanese e quindi da proteggere tramite gli amici nei piani alti: “Se parla lui, qui è cuoio per tutti”, dicono i suoi compagni di malaffare. C’è l’ombra lunga di Francesco Messina Denaro, padre del superlatitante Matteo, che disse agli altri boss della provincia, nel lontano ’88: “Dobbiamo riflettere se Rostagno fa più male da morto che da vivo”. C’è il giornalismo locale innovativo e spiazzante di Mauro, le accuse dirette ai politici, i nomi e cognomi: Canino, Pellegrino, Pizzo; la storia gli avrebbe dato ragione, con indagini, sentenze e inchieste. Ci sono in prima linea, al banco del pubblico ministero, i pm antimafia Gaetano Paci e Antonio Ingoia, sulle prima pagine per le inchieste più importanti e scottanti degli ultimi anni. C’è il nome ricorrente di Mariano Agate, boss di Mazara del Vallo capace di gestire i suoi affari dal carcere fino a poco tempo fa grazie a un efficace sistema di pizzini, che disse: “Diteci a a quello con la barba di non raccontare minchiate”. Ci sono Falcone e Borsellino, giudici ancora non martiri, con cui Rostagno scambiava informazioni. Forse c’è il traffico d’armi con la Somalia scoperto e filmato da Mauro: kalashnikov in cambio di terreni delle tribù dove interrare rifiuti tossici, con il beneplacito della politica italiana, dei servizi segreti. Lo stesso traffico probabilmente scoperto da Ilaria Alpi e confermato da faccendieri e pentiti. C’è il segreto di Stato in cui inciampa la Digos quando indaga sulla pista di Kinisia dove forse avvenivano quei traffici. C’è di mezzo l’ultima base di Gladio in Italia, guidata dallo 007 partannese Vincenzo Li Causi, morto misteriosamente proprio in Somalia pochi mesi prima della Alpi. Gladio doveva vegliare sulla minaccia libica a fine anni ’80, ma produce solo un rapporto su presunte irregolarità nei conti di Saman. C’è Francesco Cardella, co-fondatore proprio di Saman, ex editore porno, ex guru sannyasin, forse amico di Rostagno e certamente amico di Craxi, indagato quando si batté la pista interna che coinvolse la Roveri, mai sentito perché rifugiatosi in Sud America. Tra le sue mani sono passati yacht e Bentley, miliardi di lire e testi di legge sulla gestione delle comunità per tossicodipendenti. Oggi, dopo essere stato ospite fisso ad Arcore all’alba della nascita di Forza Italia (proprio come il già citato Dell’Utri), Cardella è ambasciatore del Nicaragua per i paesi arabi, con tanto di immunità diplomatica. C’è la già citata loggia Iside 2, substrato ambiguo del “circolo Scontrino” dove mafiosi, imprenditori, politici, uomini delle istituzioni trapanesi tiravano le fila della città e non solo. Ci sono perizie fatte con anni di ritardo, carabinieri che non ricordano e si contraddicono, e ricostruendo la scena del delitto in aula chiedono alla difesa “Ah, c’era anche un revolver?”. O ancora più assurdo, dimenticano una denuncia di Rostagno sulla Loggia Scontrino e in particolare su un contatto con il celebre Gran Maesto Licio Gelli. E ci sono pezzi del passato di Mauro Rostagno tirati in ballo per giustificare altre piste, altre distrazioni. C’è la testimonianza di Renato Curcio alla Digos (fondatore delle Brigate Rosse e ancora prima collega universitario e amico di Mauro) che manca agli atti, stando alla difesa. C’è Lotta Continua, con le tensioni all’indomani delle dichiarazioni del pentito Leonardo Marino, con Rostagno che vuole parlare per dire la sua e probabilmente scagionare gli amici e compagni di lotta Sofri, Bompressi e Petrostefani. Mauro verrà ucciso prima di riuscire a presentarsi in tribunale, e l’avvocato della famiglia Calabresi, Ligotti, anni dopo mise in scena un gioco di prestigio, mentre a Trapani si indagava, dicendo “Rostagno non è stato ucciso dalla Lupara”. “Stanno uccidendo Rostagno una seconda volta”, disse in quell’occasione l’amico Marco Boato.

 

C’è tanto, nella vita di Mauro Rostagno e soprattutto in questi 22 anni di false partenze, false piste, false parole, falsi amici. Forse c’è troppo. Forse i colleghi giornalisti stanno perdendo di vista un caso che, seguito con la dovuta attenzione, potrebbe essere punto di riferimento anche per quella società civile in cerca di risposte. Parlando di Mauro spesso ci si limita a inseguire certe storie, sfiorando il torbido, indagando sui rapporti personali di quella comunità, “piena di tossici e fricchettoni” secondo alcuni, trattando con leggerezza fatti, indizi e persone. Gli sviluppi sono di buon augurio: sia perché il dibattito torni a concentrarsi sugli imputati, sia perché, finalmente, il Processo Rostagno potrebbe avere l’attenzione mediatici che merita.

 

Marco Rizzo

 

(questo pezzo è stato originariamente pubblicato sul sito web de l’Unità)