Raffaella Cosentino è coautrice insieme ad Alessio Genovese del documentario “Eu 2013. The Last Frontier”, finalista al Premio Ilaria Alpi nella categoria “Premio Ia Doc”. Il film è girato interamente all’interno dei Cie di Ponte Galeria, Bari e Trapani, e le telecamere riprendono una storia fatta di esclusione, emarginazione, paura e razzismo che ha per protagonisti i migranti rinchiusi in quelli che più volte sono stati chiamati lager, per il solo fatto di avere una nazionalità diversa da quella italiana. Tema assolutamente attuale, confermato dal fatto che proprio oggi è scoppiata una rivolta all’interno del centro romano di Ponte Galeria, uno dei luoghi visitati nel documentario, dove i migranti hanno bruciato diversi materassi e sono saliti sui tetti per denunciare i lunghi periodi di detenzione arbitraria e le pessime condizioni di vita che sono costretti a subire.
Come siete riusciti a entrare all’interno di queste strutture?
Questa è una lunga storia iniziata nel 2011, ovvero quando ho fatto causa al ministero dell’Interno insieme al collega Stefano Liberti contro la circolare dell’allora ministro Maroni che vietava l’accesso sia alla stampa sia ai parlamentari all’interno dei Cie. Nel 2012 il Tar del Lazio ha riconosciuto il ruolo della stampa come watchdog della democrazia e ha riconosciuto l’illegittimità della circolare. Nello specifico siamo riusciti a entrare in contatto con il ministro Cancellieri che si è mostrata da subito molto disponibile, infatti è lei che ha revocato la circolare Maroni. Ora i giornalisti possono entrare nei centri ma con grande discrezionalità della prefettura perché è il prefetto che decide chi può accedere e quando. Non potevamo poi rimanere per più di un’ora al giorno all’interno di ogni centro, quindi ci siamo dovuti tornare vari giorni di seguito, senza poter parlare prima con le persone. Il documentario, infatti, non è stato preparato prima, ma è frutto del lavoro e degli anni di esperienza che abbiamo accumulato entrando nei Cie e occupandoci di queste questioni.
Come è nata l’idea di girare un documentario sui Cie?
Da quando ho iniziato a fare giornalismo mi sono sempre occupata di queste questioni e quindi è stata la tappa di un percorso naturale. E poi perché ritengo fondamentale parlare di questi luoghi che ripropongono la logica di Auschwitz dove le persone non sono rinchiuse per aver commesso un reato, ma solo per la colpa di essere chi sono. Per come è la legge italiana, un ragazzo che è nato e vissuto in Italia ma che magari non studia e non lavora, può perdere facilmente i documenti, essere fermato, finire in un Cie e poi essere espulso in un posto in cui non ha nessuno e che non conosce minimamente, perché non ci ha mai vissuto. La discrezionalità fa sì che questa sorte tocchi spesso a chi ha precedenti penali perché uno dei problema più grandi è che la pubblica amministrazione ha piena discrezionalità su chi mandare in un Cie e chi no.
Qual è lo scopo del vostro lavoro?
Io e Alessio abbiamo deciso di fare questo documentario perché ci siamo resi conto che i vecchi strumenti giornalistici non erano sufficienti a raccontare questa realtà di annientamento e annullamento dell’essere umano. Volevamo far sì che le persone che non potranno mai entrare in un Cie potessero venire con noi a vedere quelle persone chiuse per più di un anno in quelle gabbie come fossero animali allo zoo. Tutto questo senza disumanizzarli, ma permettendogli di esprimersi e raccontando chi sono. Questo anche perché quando arrivi in un Cie, finisce il tuo progetto migratorio. Ma anche in questi momenti, dove sembra che la tua vita abbia fallito, bisognerebbe comunque conservare la propria dignità di essere umano. Solo in questo modo potremmo restituirla anche a noi stessi e alla nostra democrazia, che permette l’esistenza di queste strutture inefficaci e costose che non servono a niente e sono solo delle istituzioni razziste. Un’altra cosa che ci preme sottolineare è come molto spesso gli enti che gestiscono questi posti si fregino della dicitura di “ente umanitario”, quando invece contribuiscono a mantenere in vita un qualcosa che è disumano. Volevamo far conoscere questo mondo al pubblico italiano ed europeo, uscendo anche dai confini nazionali, poiché è un problema che riguarda tutti.
Natascia Grbic