Mimmo Candito, la testimonianza contro le verità ufficiali

di Alessia Mutti*

È uno dei reporter di guerra italiani storici più letti e conosciuti. Dalla Liguria a Torino, Mimmo Candito, assunto nel 1970 dal quotidiano La Stampa, diventa inviato speciale in Medio Oriente, Asia, Africa e Sud America. Ha conosciuto bene il conflitto jugoslavo e le due guerre del Golfo, ma non ha mai dimenticato di tenere uno sguardo fermo sul passato. I suoi libri sul giornalismo, da Hemingway a internet, fanno ancora scuola.

Il giornalista de La Stampa, Mimmo Candito

Il giornalista de La Stampa, Mimmo Candito

Che valore ha avuto e continua ad avere il Premio Alpi nella realtà giornalistica italiana?

Non è un premio come gli altri: è un riferimento reale per coloro che già si muovono nei territori di conflitto e per i giovani giornalisti, perché per loro Ilaria è diventata un modello.

Lei è da molti anni uno degli amici del Premio: cosa significa per lei partecipare a questo evento?

È un posto in cui mi fa piacere essere invitato, un riferimento giornalistico molto importante. È un luogo di incontro e di recupero della memoria di Ilaria e, devo dire, di affermazione delle ragioni per le quali tanti di noi hanno scelto di fare i giornalisti.

Negli anni cosa crede che sia rimasto invariato nel reporting di guerra?

La gran voglia di una larga parte di coloro che fanno questo mestiere di sottrarsi ai condizionamenti, in qualsiasi forma siano espressi: che sia la censura diretta o le forme sofisticate delle tecnologie moderne. È mutata la tecnologia di intervento e la stessa struttura produttiva, perché la velocizzazione della comunicazione sta distruggendo l’attenzione al messaggio.  Se in Siria sono morti 180 giornalisti in tre anni, sono morti sicuramente per incidenti e per inesperienza, ma certamente molti di loro per non essersi accontentati delle versioni ufficiali. Questo è ciò che è rimasto e portarlo avanti è sempre più difficile: la guerra è ormai un territorio permeato di zone di contrasto in piccole localizzazioni e all’interno di queste si opera con la difficoltà di discernere esattamente chi siano soggetti e attori.

Come giudica il fatto che, sebbene il ricordo di Ilaria sia ben presente nella nostra società, non ci sia ancora una verità giuridica del caso?

È uno dei tanti misteri italiani. Il nostro Paese è attraversato nella sua storia da esercizi di potere che fanno riferimento a quelle che si chiamano “schegge impazzite” dello Stato: interessi che stanno all’interno dello Stato e che ogni volta che i mezzi di informazione si avvicinano coprono tutto, deviano l’attenzione e cercano giustificazioni. Come Piazza della Loggia a Brescia, la strage dell’Italicus, la Banca dell’Agricoltura a Milano: misteri italiani. Sono tante storie che attraversano il tempo recente del nostro Paese e poiché intaccano profondamente la struttura dello Stato trovano forme di copertura.

Ha conosciuto personalmente Ilaria Alpi? Che ricordo ha di lei e dell’episodio della sua morte?

L’ho incontrata in Somalia, ma avevamo impegni diversi e ci siamo solo incrociati. L’anno successivo, o forse anche lo stesso, è stata ammazzata. È uno dei tanti colleghi che ho conosciuto, era molto carina e dimostrava una grande attenzione.

Conosce i genitori di Ilaria?

Sì, ci siamo incontrati parecchie volte, sia al premio Alpi che in due o tre dibattiti televisivi.

Alla luce di questa conoscenza come commenterebbe l’intervista rilasciata a La Stampa dalla madre di Ilaria?

Direi che corrisponde al profilo del carattere che ricordo di lei: molto forte, molto deciso, molto consapevole, senza alcuna voglia di tacere nulla, sempre pronta a proporsi.

Quali sono i valori dell’operato e della professionalità della Alpi che sente anche suoi?

Sono valori che non sono soltanto miei, ma sono le convinzioni di tutti quelli che credono che con questo lavoro si eserciti una delle forme simbolicamente più alte del contrasto tra la verità ufficiale e la testimonianza della verità.

Ha detto prima che il premio Alpi non ma manifestazione, un atto formale e dovuto, ma un punto di riferimento reale per i giornalisti. Crede quindi che sia anche un’occasione per dare ossigeno all’inchiesta?

Direi che la risposta è già implicita nella domanda e quindi sì, certamente. Le difficoltà dell’inchiesta, oggi non nascono soltanto dal fatto che viviamo in un tempo nel quale l’esercizio del controllo da parte dei poteri è abbastanza diffuso e sofisticato ma anche perché le condizioni economiche nelle quali si svolge oggi la professione giornalistica rende sempre più rara la disponibilità editoriale a favorirla. L’inchiesta costa troppo e con internet sembra che non ci sia più bisogno di trovarsi sul terreno per esser testimoni: a ciò bisogna opporre sempre il valore insostituibile della testimonianza diretta.

Alessia Mutti

* Questa intervista è stata realizzata grazie agli studenti della Scuola di giornalismo dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano