Ilaria, la strada verso Bosaso

di Martina Carnovale*

Francesco Cavalli, ideatore e direttore del premio giornalistico Ilaria Alpi, è in libreria con Le strade di Ilaria, a vent’anni dalla morte della giornalista del Tg3 e del suo operatore in Somalia. A distanza di vent’anni, infatti, ancora troppi perché sulla vicenda di Ilaria e di Miran Hrovatin sono rimasti senza risposta.  

La strada Garowe-Bosaso, foto di Francesco Cavalli

La strada Garowe-Bosaso, foto di Francesco Cavalli

Nel suo libro si intrecciano le storie di diverse persone, compresa la sua. Perché ha scelto questo taglio narrativo?

Mi è sembrata la modalità che più rispondesse a ciò che avevo incontrato seguendo questa vicenda da ormai vent’anni e nei miei ripetuti viaggi in Somalia. In questi casi incontri storie vere di persone, vicende che sembrano lontane l’una dall’altra. Poi tutto questo si dipana in una trama che tiene tutto insieme. Il legame fra Italia e Somalia che sembra apparentemente è distante, dalla Somalia lo trovi molto più vivo e presente, nelle storie e nel vissuto delle persone.

Il suo libro non riprende affatto quello stile celebrativo che è frequente nei libri che ricordano le donne e gli uomini uccisi per il loro lavoro e per quello in cui credevano. Sembra quasi che la vera protagonista sia la famosa strada Garowe-Bosaso che nasconde rifiuti provenienti dall’Italia. Molte storie sono addirittura ambientate in un periodo precedente all’arrivo di Ilaria in Somalia. Perché ha scelto di ricordarla così, attraverso quello su cui stava indagando?

Preciso subito che non è un libro su Ilaria, non è un’inchiesta giornalistica sul caso Alpi-Hrovatin. La protagonista è la strada. Le storie si legano a questa strada che io ho percorso più volte nei miei viaggi. Racconto la Somalia nel periodo della sua costruzione fra l’86 e l’89. Certamente questa è la strada di Ilaria, quella sulla quale anche lei aveva indagato, quella che aveva percorso. Qui Ilaria, più che la protagonista, è l’origine e il filo che tiene insieme ogni storia.

Nella prefazione Pietro Veronese scrive che l’omicidio di Ilaria e del suo operatore è “molto probabilmente destinato a restare uno dei tanti misteri italiani”. Mariangela Gritta Grainer, presidente dell’associazione Ilaria Alpi, scrive che “hanno vinto loro che hanno taciuto perché non amano né la verità né la giustizia”. Secondo lei è già stata detta l’ultima parola sulla vicenda o c’è bisogna ancora accertare tutta la verità?

Certamente a vent’anni di distanza il caso Alpi-Hrovatin è già uno dei misteri italiani ma se a vent’anni di distanza siamo ancora qui a parlarne e a cercare verità e giustizia, nonostante i ripetuti tentativi di chiudere definitivamente il caso, significa che la speranza c’è ancora ed è una speranza data dalla grande partecipazione pubblica a questa vicenda.

Il fatto che si parli ancora di Ilaria e della sua storia, oltre che sintomo del malfunzionamento della giustizia italiana, è anche uno stimolo per i giornalisti a seguirne l’esempio?

Non credo che l’intenzione di Ilaria sarebbe mai stata quella di essere eretta su di un piedistallo. Certamente è un modello, forse addirittura il simbolo di un impegno del quale, mi permetto di dire, non solo nel giornalismo, ma anche nella politica e nella società, c’è ancora più bisogno oggi.

Che l’abbia conosciuta o meno, ci può raccontare la sua Ilaria Alpi, quello che per lei è stata e quello che per lei ha significato la sua storia?

Ho conosciuto Ilaria nei tanti racconti di Giorgio e Luciana che ho avuto il grande onore di conoscere e frequentare in questi vent’anni. La mia Ilaria sono loro, la tenacia, la forza seppur nella grande sofferenza di questi anni di impegno per la verità e la giustizia. Ecco, pensando a Ilaria attraverso Giorgio e Luciana, penso ad una grande umanità. A loro ho voluto dedicare questo mio libro.

Cosa l’ha spinta ad andare in Somalia a cercare di scoprire la verità su quello che è accaduto a Ilaria? 

Certamente il desiderio di capire meglio e approfondire quelle piste di inchiesta sulle quali Ilaria stava lavorando quando è stata assassinata. Ma penso anche il desiderio di respirare l’aria di quei luoghi dove lei era stata e ai quali era fortemente legata. Incontrare lì persone come aveva fatto lei, conoscere e cercare di capire la Somalia dalla Somalia stessa, come Ilaria aveva voluto fare ed aveva fatto.

Il premio Alpi è diventato negli anni il più importante riconoscimento giornalistico italiano. Perché ha deciso di partecipare attivamente alla sua istituzione? 

Nell’estate 1994, a pochi mesi dalla morte di Ilaria e Miran, organizzammo a Riccione un’iniziativa di memoria su quanto era accaduto poco prima, il 20 marzo di quell’anno, a Mogadiscio. Era un’iniziativa per la pace che si intitolava Satyagraha, la forza della verità, di ispirazione ghandiana. In quel contesto, dopo la serata, parlando con alcuni amici dell’associazione Comunità Aperta, la realtà che aveva organizzato quella serata, della quale ero all’epoca presidente, pensammo che era opportuno valorizzare il lavoro del giornalismo, quando fatto seriamente, e fare questo nel nome di Ilaria.

Cosa rappresenta per il giornalismo italiano attuale il premio Ilaria Alpi?

Credo che, a vent’anni di distanza, sia diventato un importante punto di riferimento perché è un premio che guarda al contenuto. Non è una manifestazione estiva per fare spettacolo e intrattenimento, con tutto il rispetto per chi fa premi per questi motivi. Il premio Alpi è un concorso vero e un’importante occasione per riflettere su questo mestiere difficile.

Martina Carnovale

* Questa intervista è stata realizzata grazie agli studenti della Scuola di giornalismo dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano