Depistaggi, omissioni e prove inquinate. Il 20 marzo 1994 morivano Ilaria Alpi e Miran Hrovatin e vent’anni dopo ancora non c’è una verità. Due decenni di indagini della magistratura e di commissioni parlamentari non hanno svelato i mandanti e le ragioni del duplice assassinio. Una tragedia che ha cambiato per sempre anche la vita di tutti i giornalisti che non hanno rinunciato a cercare quella verità e che sono stati accusati di aver costruito una centrale mediatica deviata. Come Luigi Grimaldi, scrittore e giornalista freelance, autore di 1994, inchiesta scritta a quattro mani con l’inviato di Famiglia Cristiana, Luciano Scalettari, che ripercorre la storia dell’omicidio dell’inviata del Tg3 e del suo operatore.
Essere un interprete del caso Alpi o avere scritto di lei e della sua vicenda ha avuto delle conseguenze sulla sua attività professionale?
Non è stato facile occuparsi da freelance del caso Alpi/Hrovatin. Credo che l’impegno col quale Taormina, presidente della commissione parlamentare d’inchiesta istituita per indagare sul caso, ed alcuni suoi collaboratori hanno cercato di dimostrare l’inesistenza della pista del traffico di armi nella vicenda, attraverso un intenso lavoro di denigrazione nei confronti miei e di altri, abbia pregiudicato, per quanto mi riguarda, ogni possibile carriera giornalistica. Il fumus insistito sulla fantomatica “centrale mediatica di depistaggio”, di cui, secondo Taormina, il mio lavoro avrebbe fatto parte, alla fine, per quanto questo teorema sia miseramente crollato, mi ha certamente danneggiato. Dopo anni di giornalismo d’inchiesta, oggi ho dovuto rinunciare a svolgere questa attività a titolo professionale.
Che ricordo lei ha di Ilaria o, se non l’ha conosciuta, dell’episodio della sua morte?
Ilaria Alpi e Miran Hrovatin sono stati vittime di un delitto politico. Né più né meno di Giacomo Matteotti. Nessuna notizia che i due colleghi avessero divulgato avrebbe avuto una qualche rilevanza politica o mediatica in Somalia. Ne avrebbe avuta invece (eccome) in Italia, sopratutto alla vigilia delle elezioni politiche del ’94. Uccidere giornalisti equivale a truccare i normali processi democratici. Attraverso l’informazione l’opinione pubblica matura buona parte delle proprie intenzioni di voto. Per questo, in considerazione del coinvolgimento nei traffici con la Somalia di diversi personaggi impegnati sin dal ’92 nella trasformazione di Publitalia in un partito politico, penso che il duplice delitto di Mogadiscio sia stato un assassinio politico.
Ha o ha avuto rapporti con la famiglia, con i genitori di Ilaria?
Ho conosciuto, ed è stato un onore, i genitori di Ilaria. Ammiro la loro dedizione e la capacità che hanno avuto di trasformare la ricerca di una verità negata da dolore privato ad azione concreta, anche politica, che oggettivamente assume un valore civile trascendente rispetto alla semplice verità storica o alla lacunosa verità giudiziaria.
Quali sono i valori dell’operato e della professionalità della Alpi che lei sente anche suoi?
Credo che Ilaria quando è stata uccisa seguisse una pista che collegava determinati traffici in Somalia e nella ex Jugoslavia (anch’essa all’epoca in guerra). Una pista che mi era stata documentata da numerose fonti assai prima che Ilaria fosse uccisa. Ricordo bene di non aver saputo, il 20 marzo del 1994, chi fosse Ilaria Alpi. Scoprii dal TG3 che era stata uccisa a Mogadiscio con Miran. Vidi, come tutti, Giancarlo Marocchino, che invece conoscevo benissimo, intervistato sul luogo dell’agguato. Sono certo che Ilaria fosse consapevole di andare incontro a dei rischi, scavando sotto i piedi di trafficanti e faccendieri. E sono altrettanto certo che, al di là di ogni giusta cautela professionale, l’etica della ricerca e del racconto della verità, l’imperativo morale di non abdicare il proprio ruolo di testimone, siano stati i valori che hanno guidato l’impegno professionale di Ilaria sino alle estreme conseguenze. Sono i valori che dovrebbero guidare l’azione di ogni giornalista. Chiunque può scrivere (è un diritto) ma per essere giornalisti con la “G” maiuscola, non è certo la tessera di iscrizione all’ordine a fare la differenza.
Perché, a suo avviso, è ancora importante fare luce sulla vicenda di Ilaria e sostenere le attività dell’associazione e del premio? Perché è importante in Italia tenere viva la sua memoria?
È evidente che la conquista di una verità giudiziaria e storica sulla vicenda di Ilaria e Miran è un passaggio obbligato per ridare alla nostra società, al nostro povero Paese, una parte della dignità che troppi anni di “misteri” hanno dilapidato. In questa vicenda sono in gioco interessi enormi e sono coinvolte persone e istituzioni (nazionali e straniere) il cui potere è forse inattaccabile. Ma dobbiamo ugualmente far sì che chi ha delle responsabilità sia certo che ci sarà sempre – per quanto il tempo passi – qualcuno pronto ad incalzare la verità e a chiedere conto di azioni che nessuna ragion di stato può giustificare. In secondo luogo, è importante che il nervo scoperto toccato dall’inchiesta di Ilaria, e quindi la sua memoria, venga ancora messo in luce. Bisogna che diventi parte della consapevolezza civile di questo Paese. Lo dobbiamo a Ilaria e a noi stessi, alla nostra dignità di giornalisti e alle generazioni venture. L’associazione e il premio possono giocare un ruolo di primo piano nella conquista di questi obiettivi.
Questa intervista è stata realizzata grazie agli studenti della Scuola di giornalismo dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.