Walter Molino, finalista al Premio Alpi, “scopre” la Faccia del mostro

“I pentiti lo chiamavano ‘faccia da mostro’, per quel volto sfigurato da una fucilata. Per anni si è aggirato come un’ombra nella Palermo delle stragi e degli omicidi eccellenti: dal fallito attentato dell’Addaura alla strage di via D’Amelio, fino all’omicidio del poliziotto Nino Agostino e di sua moglie incinta”. È con queste parole che il giornalista Walter Molino introduce una figura oscura appartenuta ad un periodo storico ben preciso, e che pare con ogni probabilità avere oggi un volto e un nome: è quello di Giovanni Aiello, incontrato dallo stesso Molino per il reportage Faccia di mostro, trasmesso dal programma di La7 Piazza Pulita nell’aprile di quest’anno. Presentato nella categoria “Miglior inchiesta italiana +15” del Premio Ilaria Alpi, l’inchiesta offre per la prima volta una panoramica su alcune delle pagine più complesse affrontate dal giornalismo di mafia in Italia. Ne abbiamo discusso direttamente con Walter Molino, intervenuto alla proiezione di Faccia di mostro.

Cosa ti ha portato ad affrontare questa indagine?

Faccia di mostro è sempre stata una figura misteriosa, che i collaboratori di giustizia hanno più volte indicato come coinvolto in eventi ben precisi in preparazione alle stragi del ’92. Per anni la magistratura ha cercato di identificarlo, e una volta riuscitaci ho ritenuto valido parlarci.

Per un giornalista siciliano discutere di mafia può essere considerato un dovere lavorativo, in funzione del potere divulgativo dato dalla professione?

No, non credo. Affrontare certi argomenti dipende dalle tue attitudini, e per quanto la Sicilia senta più vicino di altre regioni questa problematica non ritengo meno valido un suo giornalista che non si sia mai occupato di mafia.

Negli ultimi vent’anni la coscienza che la mafia sia un problema reale si è diffusa come mai prima, fermandosi spesso a semplici generalizzazioni. Trova che questa superficialità sia deleteria per la lotta alla mafia che voi giornalisti combattete?

Definire il nostro lavoro come “lotta alla mafia” mi pare un’appropriazione indebita: sono le magistrature a trovarsi in prima linea, noi siamo semmai dei cronisti alla ricerca di verità ancora sconosciute. La mafia è intrecciata all’ossatura del nostro stato fin dalla sua nascita, perlomeno dal secondo dopoguerra. Oggi continua ad accadere quello che accadeva vent’anni fa, con la differenza che allora si piazzavano bombe sotto le automobili di personaggi scomodi, e oggi questa violenza non è più necessaria. Un segnale che la mafia agisce ancora più in profondità.

A tale proposito, crede che il Nord sia pronto a combattere la malavita che ospita ormai da decenni 

Credo che il Nord abbia magistrati eccellenti, da anni, capaci di individuare infiltrazioni mafiose attive su diversi livelli. Esiste di contro una scarsa consapevolezza nella popolazione, benché l’illegaltà agisca anche nelle transazioni economiche di tutti i giorni.

In conclusione, crede che associazioni come Libera siano in grado da sole di informare gli italiani sull’ingerenza della mafia?

Tutto ciò che si diriga verso un miglioramento del senso civico della popolazione, giovani in particolare, è utile. Di certo altre associazioni non potrebbero che migliorare la situazione.

Lorenzo De Vizzi