ALBERTO NERAZZINI, VOGLIO SPINGERE I LIMITI DELL’INCHIESTA OLTRE REPORT

Tra un mese si svolgeranno le giornate del Premio Ilaria Alpi giunto alla XX edizione. Oggi pubblichiamo l’intervista a uno dei Vincitori: Alberto Nerazzini.neraz x web

Alberto Nerazzini, giornalista d’inchiesta e documentarista, ha scritto su diversi quotidiani e settimanali e ha realizzato reportage per Rai e La7. Da sei anni lavora a Report.

Mi parli di Archiviazione Provvisoria: la storia di una vergogna, con cui ha ricevuto una menzione speciale della giuria del Premio Ilaria Alpi nel 2005

Archiviazione Provvisoria è un lavoro difficile, ma al tempo stesso penso che sia prodigiosamente sincero e autentico. Tutto é cominciato in una serata di settembre di dieci anni fa, con una manciata di amici. Discutemmo delle reciproche sventure lavorative e, davanti a una birra, decidemmo di mettere in moto la produzione. Ottenuta l’approvazione del produttore, Mario Gianani, 48 ore dopo abbiamo iniziato a lavorare.

I tre mesi seguenti sono stati massacranti ed emozionanti, con pochi soldi e mille incertezze, ma anche con una squadra strepitosa di professionisti e amici. Abbiamo messo in piedi due puntate per Passato ProssimoArchiviazione provvisoria e Due lunghi inverni. Difficile ripensare all’una senza includere l’altra: i personaggi, le trasferte e la scrittura s’intrecciano di continuo.

Mentre con Due lunghi inverni avevamo raccontato i mesi più freddi e tragici dell’Italia in guerra, tenendo sullo sfondo gli orrori della ritirata aggressiva dei tedeschi, con Archiviazione provvisoriaabbiamo voluto occuparci esclusivamente dell’ingiustizia più orribile subita dall’Italia: la carneficina compiuta da nazisti e fascisti tra il 1943 e il 1945. Inoltre, abbiamo voluto approfondire e indagare l’orrore di una seconda ingiustizia durata sessant’anni: l’impunità garantita ai responsabili delle stragi attraverso l’imposizione dall’alto del silenzio e la sparizione per decenni di 695 fascicoli. Abbiamo fatto il possibile per realizzare non solo un reportage, ma anche un’inchiesta storica, partendo dall’immagine ormai nota dell’armadio della vergogna, ricostruendo i fatti principali e dando voce ai testimoni ma anche ai protagonisti della politica. Archiviazione Provvisoria prende il nome dall’atto ordinato dal procuratore generale militare Enrico Santacroce, che nel 1960 fece così sparire gran parte di quei fascicoli.

I 90 minuti di Archiviazione provvisoria sono arricchiti dagli interventi di procuratori militari, politici e giornalisti, da Franco Giustolisi a Udo Gümpel. Rilevante è stata la partecipazione di Giulio Andreotti.

Dopo aver rifiutato l’intervista, Andreotti decise improvvisamente di accoglierci nel suo studio. Rispose alle mie domande. Diede sfogo alla sua memoria, ma incespicava sulle gravi coincidenze, sulle responsabilità e sui dettagli di quell’archiviazione provvisoria figlia della Guerra Fredda. Un politico “contemporaneo” avrebbe reagito con meno eleganza, invece di gestire l’imbarazzo e il fastidio come lui. Eppure era un Andreotti inedito, pieno di tic, che cambiava voce, farfugliava e batteva nervosamente le dita della mano sul ginocchio mentre dava risposte poco convinte e convincenti. Nella stessa sera della messa in onda di Archiviazione provvisoria si auto invitò a sorpresa a Porta a porta. A un certo punto prese la parola e parlò del procuratore Santacroce, della sua archiviazione del 1960 e delle stragi nazifasciste. Nessuno in studio capiva cosa stesse dicendo, ma Andreotti è stato il più “televisivo” di tutti, perché sapeva che poco prima, su un altro canale, si era parlato proprio di quello.

Ricevere questo premio ha cambiato la sua vita professionale?

Non credo che ricevere il premio abbia cambiato la mia vita professionale. Nel 2005 avevo già partecipato a svariate edizioni, anche come finalista, con alcune mie inchieste di Sciuscià. Un anno, ricordo che Sandro Ruotolo – all’epoca membro della giuria del Premio – mi chiamò per annunciarmi che avevo vinto con un’inchiesta realizzata assieme a Riccardo Iacona. Ero in trasferta e mi disse di rientrare per andare a Riccione. Poco dopo mi telefonò di nuovo per dirmi che si era sbagliato. Io però lo ringrazio, perché mi fece anche capire come lavorava la giuria fino all’ultimo.

Sulla base dell’esperienza fatta, so di aver realizzato lavori che giornalisticamente solidi, importanti e di successo – penso a La mafia è bianca o a quello su Don Verzè e sul San Raffaele –, e questo a prescindere dai premi ricevuti. Esattamente come ho visto, negli anni, inchieste rilevanti di colleghi che non hanno ottenuto i riconoscimenti che meritavano.

Archiviazione provvisoria si presentava come reportage storico, e quindi ho vinto con quello che forse, fra i tanti, è il mio lavoro meno dichiaratamente d’inchiesta giornalistica. Ma sono stato felice di condividere con una squadra strepitosa di professionisti quel riconoscimento, che arrivava in un periodo difficile, dove stavo ancora subendo gli strascichi del celebre “editto bulgaro”, cercando spazi per l’inchiesta fuori dai canali ufficiali della televisione.

Che valore ha avuto e continua ad avere questo Premio nella realtà giornalistica italiana?  

Penso che sia il premio più importante e più genuino, malgrado l’ineluttabile dose di autoreferenzialità, in un Paese dove si fanno poche inchieste, ma dove i premi giornalistici vengono su come funghi. Il Premio Ilaria Alpi è importante anche grazie a tutto ciò che ruota attorno alla singola serata in cui sono assegnati i premi: convegni, concerti, dibattiti che lo hanno trasformato in un evento culturale, un momento d’incontro e di confronto, di sincero valore. In questi anni ho imparato a rispettare e a voler bene a persone come Barbara Bastianelli e Sara Paci, che da anni si impegnano con passione per quella manciata di giornate in cui il Premio va in scena. Un po’ più di coraggio e di apertura a ciò che accade fuori dal nostro Paese non farebbe male, ma le persone che lavorano quotidianamente al Premio rappresentano di certo l’aspetto più bello e riuscito della manifestazione, quelle che, secondo me, meglio rispettano la memoria di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin.

Che ricordo ha di Ilaria?

Il mio ricordo di Ilaria Alpi è squisitamente personale e indiretto. Non l’ho mai conosciuta, ma la notizia della sua morte e di quella di Miran Hrovatin è un ricordo limpido: mi colpì quando ero uno studente irrequieto che andava all’università, ma che voleva diventare un giornalista d’inchiesta. Quella notizia però mi ferì, perché avevo ben presente quella giovane giornalista che faceva la differenza e che con spontaneità e forza raccontava di una guerra, nostra eppure dimenticata. Avevo vent’anni e non avevo dubbi sulle ragioni di quelle due morti. Mi aspettavo reazioni che poi non vidi manifestarsi. Ma forse, ripeto, avevo l’ottimismo dei giovani. Del resto, oggi, le guerre nostre o che ci riguardano, sparse qua e là, quante sono? E su quanti giornalisti inviati sul campo come Ilaria e Miran possiamo contare?

Perché 20 anni dopo la sua morte, il lavoro di Ilaria Alpi e le sue esperienze possono essere considerate ancora attuali?

Ilaria ha dimostrato di amare il suo lavoro e di riconoscere la ricchezza, l’importanza e la responsabilità che il giornalismo trascina con sé. La voglia e il dovere di raccontare, di andare avanti e a fondo. Sono i valori che ha dimostrato di avere e che dovrebbero imbottire la testa di ogni giornalista. Ma quelli che consideravo dei valori essenziali, presto ho scoperto che sono invece eccezionali. Riguardo a tutto ciò che è stato fatto dalla politica e dalle istituzioni per far luce sull’assassinio di Ilaria e Miran, in questi 20 anni abbiamo dovuto sentire e leggere di tutto. Dichiarazioni indecenti, come quella secondo la quale Ilaria e Miran erano in vacanza e non stavano facendo alcuna inchiesta, oppure quella, assai più comune nelle sue varie forme, per cui saremmo di fronte a una giornalista che aveva incautamente deciso di occuparsi di qualcosa di troppo grande per lei. Di cosa dovrebbe occuparsi un giornalista se non di storie importanti, ben più grandi di quelle alla portata di tutti i cittadini?

Di che cosa si sta occupando in questo momento?

Ho appena finito un lavoro sulle Casse previdenziali e sull’intreccio di interessi politici, sindacali e finanziari che saccheggia i risparmi e il futuro dei lavoratori. L’ho realizzato per una puntata diReport, ma ritengo che non sia concluso per la quantità di materiale raccolto e tenuto fuori dal montaggio finale, ma soprattutto per gli scenari che si nascondono dietro la gestione dei miliardi di euro delle pensioni. Inoltre, sto continuando a occuparmi di mafie e riciclaggio e della corruzione esasperata del nostro sistema economico e finanziario.

Che progetti ha per il futuro?

Il mio progetto, da anni, è sempre lo stesso: fare giornalismo investigativo, alzando il livello dell’inchiesta e del suo linguaggio, filmico e narrativo. Per questo non so cosa mi attende, ma so che il mio tempo a Report si è esaurito.

Claudia Zanella