Dario Celli, il giornalismo, questo sconosciuto nelle redazioni

C’è tempo fino al 31 maggio per partecipare al Premio Giornalistico Televisivo Ilaria Alpi, in programma a Riccione dal 4 al 7 settembre (il bando è reperibile al sito www.premioilariaalpi.it).

In attesa di conoscere i finalisti, ripercorriamo la storia del premio che quest’anno taglia il traguardo della ventesima edizione con le interviste ai vincitori.  Oggi intervistiamo Dario Celli che vinse il premio nel 1996.celliok

Dario Celli, una vita da inviato in Rai e un blog, “Aria Fritta”, su cui dispensa consigli per chi voglia recarsi negli Stati Uniti e non c’è mai stato, vinse il premio Alpi nel 1996. «Avevo saputo che in Veneto c’era un paesino dove gli immigrati, soprattutto africani, erano diventati maggioranza. Operai nelle numerose fabbriche del circondario, vivevano in affitto in case abbandonate da tempo dai proprietari veneti, emigrati a loro volta da tempo in Europa o in Sudamerica. Mi era sembrata una bella storia e, in effetti, è venuto fuori uno spaccato della nostra società di cui si parla, secondo me, sempre troppo poco. Quella terra che per gli italiani è stata, per un secolo, di emigrazione, era diventata terra di opportunità per altri emigranti in cerca di una vita dignitosa, normale. Quel brevissimo servizio cercò di raccontare tutto questo».

Ricevere questo premio ha cambiato la sua vita professionale?

Ricevere il Premio Ilaria Alpi è stato per me un onore e un vero riconoscimento professionale, perché non viene assegnato – come succede in altri casi – in base a “opportunità”, o cercando di mantenere una sorta di “equilibrio” di testate. Ma riceverlo non ha cambiato minimamente la mia vita professionale: ricordo che il mio direttore non mi fece nemmeno i complimenti, nonostante il Premio fosse, ovviamente, anche un riconoscimento alla testata alla quale appartenevo e che lui dirigeva.

Che valore ha avuto e continua ad avere questo Premio nella realtà giornalistica italiana?

È il primo vero riconoscimento italiano che riguarda specificamente il giornalismo televisivo. Precedentemente esisteva soltanto il Saint Vincent, che però veniva assegnato, anno dopo anno, soltanto ai “soliti noti”.

Che ricordo ha di Ilaria o, se non l’ha conosciuta, dell’episodio della sua morte? Ha o ha avuto rapporti con la famiglia, con i genitori di Ilaria?

Non ho conosciuto Ilaria Alpi. Ho iniziato ad avere i primi contratti a termine al Tg2 nel 1995, l’anno successivo al suo assassinio. Eravamo quasi coetanei e, ovviamente, la sua morte mi colpì molto. Non ho più incontrato i suoi genitori dopo la premiazione, ma ricordo che ero molto emozionato quando mi strinsero la mano, prima che mi venisse consegnato il premio dalle mani di Lamberto Sposini.

Quali sono i valori dell’operato e della professionalità della Alpi che sente anche suoi?

La curiosità, che poi vuol dire spesso ricerca della verità; e poi il rigore, l’umiltà e la semplicità. Caratteristiche che, a mio parere, deve avere ogni buon giornalista. Pur non avendola mai conosciuta – da quello che mi hanno raccontato di lei i colleghi che l’hanno conosciuta – la consideravo simile a me. L’aver ricevuto il Premio Ilaria Alpi mi ha sempre spinto a cercare di esserne, poi, all’altezza. Anche dopo anni.

Oggi che il free lance è la figura professionale che si sta affermando nel mondo del giornalismo di esteri che cosa significa lavorare in Rai? Quali sono le differenze, gli svantaggi e i vantaggi?

Lavorare in Rai, per me, vuol dire innanzitutto essere consapevole che lavoro per il servizio Pubblico, anzi, che non devo mai scordare di essere al servizio del pubblico. Ma, dopo quasi 20 anni di lavoro, mi rendo conto che – abusando di una frase che ripetono sempre i colleghi “anziani” – “non è più come una volta”. Nei Tg Rai è ormai sempre più raro uscire per realizzare servizi o reportage: non poche volte mi è capitato di fare interviste senza muovermi dalla redazione, inviando una troupe d’appalto nel luogo dell’avvenimento e invitando la persona da intervistare a “far finta che lì ci sia anche il giornalista”, senza poter vedere di persona il luogo, senza osservare cosa circonda il/la protagonista per poter trarre da questo elementi per eventuali ulteriori domande. È una scandalosa pratica sempre più diffusa nei tg: per risparmiare, per fare in fretta, per precedere la concorrenza. È giornalismo questo? La verità è che, oggi, solo alcuni fortunati fanno vero giornalismo, vanno sul campo, verificano personalmente la notizia, chiedono, “fanno inchiesta”. Gli altri sono costretti (per ragioni di bilancio, ma non solo) a restare immobilizzati dietro la scrivania, lavorando esclusivamente con i testi delle agenzie e con immagini di repertorio. In questo senso, forse, è davvero molto meglio lavorare come free lance, certamente è più divertente e stimolante. È più “giornalismo”. Ma oggi in Italia, il lavoro del free lance è malpagato, non riconosciuto, privo di assicurazione e contributi, utilizzato in modo strumentale dai direttori dei giornali. Si può lavorare bene con la costante incognita di come arrivare alla fine del mese?

Martina Carnovale

Questa intervista è stata realizzata grazie agli studenti della Scuola di giornalismo dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.