Sigfrido Ranucci, il racconto della verità è una discesa libera

C’è tempo fino al 31 maggio per partecipare al Premio Giornalistico Televisivo Ilaria Alpi, in programma a Riccione dal 4 al 7 settembre (il bando è reperibile al sito www.premioilariaalpi.it).

In attesa di conoscere i finalisti, ripercorriamo la storia del premio che quest’anno taglia il traguardo della ventesima edizione con le interviste ai vincitori. Sigfrido Ranucci ha vinto nel 2004, 2005, 2006. 

L’affaire Telecom-Serbia, la pubblicazione dell’ultima intervista del giudice Paolo Borsellino, il ritrovamento della pinacoteca di Tanzi,  i numerosi servizi sul traffico illecito di rifiuti. Questi sono solo alcuni dei lavori giornalistici che hanno reso Sigfrido Ranucci uno degli inviati più stimati e apprezzati della Rai, in Rainews prima, oggi firma di punta della squadra di Milena Gabanelli a Report. Ranucci è anche un habituè del Premio Alpi, avendolo vinto ben tre volte, l’ultima nel 2006 con la video inchiesta per Rainews24 “Falluja, la strage nascosta”. Lì aveva denunciato l’uso, da parte dell’esercito americano, di ordigni al fosforo bianco durante la battaglia combattuta nella città irachena nel 2004.

Ricevere questo premio ha cambiato la sua vita professionale?

È stato un grande stimolo a continuare a realizzare inchieste, che è la mia grande passione. Ilaria Alpi è stata mia collega al Tg e il riconoscimento mi ha toccato profondamente anche a livello emotivo.

Che valore ha questo premio nella realtà giornalistica italiana?

È una grande occasione, soprattutto per i giovani giornalisti, di vedere riconosciute le proprie qualità. Oltre a essere un’importante vetrina, è un momento d’incontro e di dialogo sullo stato dell’informazione nel nostro Paese.

Che ricordo ha di Ilaria?

Una persona preparata, con una sensibilità particolare e un’attenzione sempre rivolta agli emarginati del mondo. Una grande curiosità e un sorriso che le permetteva di affrontare le situazioni più difficili con disinvoltura.

Quali sono i valori dell’operato e della professionalità della Alpi che sente anche suoi?

Ci accomuna la ricerca della verità, anche quando è scomoda. La sua morte è stata un grandissimo dolore ma allo stesso tempo un forte stimolo per me e per tanti altri giornalisti che si riconoscono nel suo modo di agire.

Come ha iniziato a fare il giornalista?

Ho iniziato per gioco. Ero insegnante e ogni tanto scrivevo su una rivista che si occupava della città di Roma. Poi, pian piano, il giornalismo è diventato il centro della mia attività, ho sempre avuto una spinta innata alla curiosità, a capire cosa non funziona e perché.

Cosa spinge un giornalista a rischiare la vita pur di raccontare la verità?

Ci sono dei momenti nel lavoro in cui entri in una fase agonistica, come se stessi correndo una discesa libera. Punti il traguardo e vuoi arrivare nella maniera più diretta possibile. I pericoli li metti in conto all’inizio, ma poi quando inizi a scendere passano in secondo piano.

Qual è la cosa più bella di questo mestiere?

Accendere la luce su argomenti non noti è la soddisfazione più grande. Dà il senso di aver fatto qualcosa di importante e utile.

Quali sono gli ingredienti per un’inchiesta vincente?

Documentazione rigorosa, argomento di interesse pubblico e un linguaggio diretto e chiaro. Ci sono due tipi di inchieste: una che, come detto prima, accende una luce su qualcosa di cui non si parla. Un’altra, invece, che tenta di mettere insieme i pezzi di un mosaico, perché spesso vengono buttate lì notizie che hanno bisogno di essere collegate.

Il giornalismo oggi sta perdendo questa vocazione?

Non so se la sta perdendo, ma di certo fare inchiesta è faticoso e pericoloso già dal numero di querele che si ricevono. Solo nell’ultima che ho realizzato me ne sono arrivate dieci. E in tutta la mia carriera ho accumulato 50 milioni di euro in risarcimento danni. Per facilitare questo tipo di giornalismo la politica dovrebbe creare un filtro a questo stillicidio della querela facile.

Nicolò De Carolis

Questa intervista è stata realizzata grazie agli studenti della Scuola di giornalismo dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.

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