SILVESTRO MONTANARO, L’ANNO ZERO DEL GIORNALISMO

1999 manifestoC’è tempo fino al 31 maggio per partecipare al Premio Giornalistico Televisivo Ilaria Alpi, in programma a Riccione dal 4 al 7 settembre (il bando è reperibile al sito www.premioilariaalpi.it).

In attesa di conoscere i finalisti, ripercorriamo la storia del premio che quest’anno taglia il traguardo della ventesima edizione. Silvestro Montanaro vince il Premio Ilaria Alpi nel 1999.

Silvestro Montanaro, giornalista e conduttore televisivo, ha vinto il premio Ilaria Alpi nel 1999 grazie al documentario E poi ho incontrato Madid. A quindici anni da quel riconoscimento e nel ventennale della scomparsa della reporter di Rai3, Montanaro parla del giornalismo italiano con amarezza: «Ci troviamo nell’anno zero della nostra professione».

Parliamo del lavoro con cui ha vinto il Premio Alpi. Chi è Madid?

Madid è un pezzo di storia della televisione italiana. Il documentario andò in onda per la prima volta in seconda serata e bloccò i centralini della Rai di tutta Italia: dopo poche settimane che era stato trasmesso venne riproposto in prima serata su richiesta del pubblico. È la storia di alcune mamme, e dei loro bambini, che vivevano nel Sud Sudan durante la seconda guerra civile che ha devastato quella terra. Con E poi ho incontrato Madid ho voluto raccontare le storie di persone inermi davanti all’ennesima carestia che li colpiva a causa della guerra: gente massacrata e che non sapeva di posare i piedi su un Paese che conteneva uno dei più ricchi giacimenti di petrolio del mondo.

Secondo lei perché, quell’anno, il premio Ilaria Alpi è stato vinto proprio dal suo documentario?

In quegli anni si parlava del conflitto in Sudan come di un conflitto tra Nord islamico e Sud cristiano. Una riduzione sterile, fatta da una certa stampa, di un conflitto che in realtà aveva ragioni legate a chiari interessi economici. Televisivamente quel documentario è stato uno squarcio su un mondo lontano, di cui si parlava poco, e sulle logiche che lo regolavano. E ha dato spazio a voci lontane. Il pubblico italiano l’ha capito e, probabilmente, anche la giuria.

Nel panorama italiano c’è ancora spazio per un giornalismo come questo?

No. Fino all’anno scorso ho curato il programma C’era una volta su Rai3, che è stato chiuso perché era scomodo. Negli anni avevamo parlato di geopolitica, di diritti umani, delle cosiddette guerre umanitarie, proponendo un’idea di giornalismo che andasse al fondo delle cose. Quanti, oggi, fanno questo tipo di lavoro? Non ci sono più spazi, ormai. E lo dico con tristezza.

Che ricordo ha di Ilaria?

Mi riesce difficile parlare di Ilaria perché la sento molto vicina. Era un’appassionata di questo lavoro. Era una che non andava al seguito degli avvenimenti, perché non ha senso andare a raccontare i grandi teatri di guerra stando in albergo e dicendo le stesse cose che scrivono i tuoi colleghi. Ilaria andava da sola, spesso a spese sue, a cercare la verità: era un esempio vivente di quello che dovrebbe essere il giornalismo. Perché si fa così, non c’è un altro modo.

Pensa che il premio possa dare ossigeno a questo modo di fare giornalismo?

Non lo so e devo ammettere che è da un po’ che non seguo il premio. Mi convince poco una giuria fatta di giornalisti che giudicano il lavoro di altri giornalisti perché ormai mi sono convinto che il giornalismo italiano sia malato. Questo è un Paese in cui c’è un Ordine che ti dice che sei un giornalista se un padrone ti fa un contratto. Se le cose stanno così il giornalismo non può che essere una casta. Per dare ossigeno al giornalismo bisogna cambiare le cose nel profondo, senza timore reverenziale. Perché è vero che c’è una grave responsabilità delle aziende editoriali, ma è anche vero che i giornalisti devono avere il coraggio di raccontare. All’obiezione che poi si rischia il posto bisogna avere il coraggio di rispondere «chi se ne frega».

Oggi cosa può rappresentare la vicenda della morte di Ilaria Alpi?

Ancora oggi quella vicenda rappresenta una delle pagine più brutte del giornalismo mondiale, perché mostra la grande crudeltà che le lobby e i poteri sono in grado di tirar fuori per proteggere i propri interessi e il silenzio che li avvolge. Ma allo stesso tempo la morte di Ilaria rappresenta e ci ricorda quanto sia importante il nostro mestiere. La democrazia ha delle regole precise, a partire dal controllo dei poteri: se il cittadino non ha informazione sul potere come può avere la possibilità di decidere, di scegliere? E quelle informazioni chi deve cercarle e diffonderle se non noi?

Francesco Zaffarano

Questa intervista è stata realizzata grazie agli studenti della Scuola di giornalismo dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.