FILIPPO VENDEMMIATI, CONTRO OGNI ABUSO DI POTERE

C’è tempo fino al 31 maggio per partecipare al Premio Giornalistico Televisivo Ilaria Alpi, in programma a Riccione dal 4 al 7 settembre (il bando è reperibile al sito www.premioilariaalpi.it).

In attesa di conoscere i finalisti, ripercorriamo la storia del premio che quest’anno taglia il traguardo della ventesima edizione. Iniziamo con l’intervista a Filippo Vendemmiati uno dei vincitori del 1995.

Filippo Vendemmiati, classe ’58, ferrarese ma residente a Bologna, è uno dei vincitori della prima edizione del Premio Alpi, nel 1995. Dopo molti anni di cronaca passati alla Rai Emilia-Romagna, Vendemmiati ha iniziato a realizzare documentari. Al 2010 risale E’ stato morto un ragazzo (premiato con il David di Donatello), una lucida inchiesta sulla morte di Federico Aldrovandi, studente ferrarese ucciso cinque anni prima da quattro poliziotti. Nel 2012 presenta al Festival di Venezia Non mi avete convinto, biografia dello storico leader comunista ed ex presidente della camera Pietro Ingrao, omaggio «a una mia vecchia e mai spenta passione, la politica, oggi purtroppo così infangata e distante».

Con quale lavoro ha vinto il Premio Alpi?

Era un servizio per il Tgr Emilia-Romagna, tra l’ironico e il provocatorio, che prendeva in giro i sondaggi pre-elettorali. In questo caso gli intervistati erano i senza fissa dimora. Il servizio sollevava anche il tema del diritto di voto. Poiché alcuni di loro erano privi di residenza, in realtà non potevano esercitarlo.

Ricevere questo premio ha cambiato la tua vita professionale? Se sì, come, in che termini?

Non l’ha cambiata per nulla, se non per il fatto che due anni dopo lo stesso premio l’ha vinto la mia futura moglie (Donata Zanotti, ndr). Ma non ci siamo sposati per questo.

Che valore ha avuto, ha e continua ad avere questo Premio nella realtà giornalistica italiana?

Lo ammetto: ho un’avversione personale verso i premi in genere, specie verso quelli giornalistici. Stefano Tassinari, scrittore e mio grande amico, poche settimane prima di morire ricevette un riconoscimento importante e io lo seppi solo dai giornali. Mi arrabbiai un po’ e lui, con la sua consueta ironia e intelligenza, mi disse: «I premi sono come le emorroidi, prima o poi arrivano».

Che ricordo ha di Ilaria o, se non l’ha conosciuta, dell’episodio della sua morte? Ha rapporti con la famiglia, con i genitori di Ilaria?

Non l’ho mai conosciuta personalmente, ma la seguivo come giovane collega della Rai. Eravamo più o meno coetanei. Mi colpivano molto la competenza e la precisione dei suoi servizi.

Quali sono i valori dell’operato e della professionalità della Alpi che sente anche suoi? Questa figura ha influenzato in un qualche modo la sua attività professionale, precedente al premio e/o successiva?

Nel mondo ci sono decine di giornalisti che muoiono o vengono arrestati nell’esercizio della loro professione. Altri che pagano quotidianamente piccole o grandi angherie per affermare la dignità e la liberta di questo lavoro. Avviene nelle grandi e affermate testate, ma forse ancora di più in quelle piccole, nelle sperdute provincie, nelle tv locali, nei siti internet o nei blog autogestiti. Preferisco pensare a queste “forme minori di giornalismo”, sottopagate e sfruttate. Un giornalista che muore non è un eroe, ma un morto sul lavoro.

Quando e perché ha deciso di occuparsi del caso di Aldrovandi?

Quando mi sono reso conto che questa “piccola-grande tragedia” era esemplare, racchiudeva molti elementi costitutivi dell’Italia dei misteri e delle stragi e aveva molto a che fare con il sistema dell’informazione e della giustizia.

Quello di Federico Aldrovandi è un caso scomodo, che lei chiama “delitto quasi perfetto”, coperto da bugie e falsificazioni, e che si ricollega ad altri casi nei quali sono state coinvolte le forze dell’ordine. Può spiegare più in dettaglio?

Il filo che unisce questo caso ad altri e in qualche modo anche ai fatti del G8 di Genova è il muro fitto di omertà e depistaggi che avvolge e nasconde “gli uomini dello Stato” che sbagliano. Sintomo non solo e non tanto di “mele marce”, ma di un sistema profondamente malato. Uno Stato civile e trasparente avrebbe dovuto costituirsi parte civile a fianco dei genitori del ragazzo e non difendere oltre ogni ragionevole evidenza i quattro autori di un omicidio.

Ora, a distanza di qualche anno, come stanno le cose da questo punto di vista? Esiste più controllo, più attenzione contro gli abusi di potere?

Credo e spero che ci sia più attenzione da parte dell’opinione pubblica e in particolare meno giornalisti accomodanti e piegati alle veline delle questure.

Cosa deve fare il Governo, in termini legislativi e non solo, affinché casi come quelli che lei ha documentato non si ripetano più?

Approvare il reato di tortura come ci chiede invano da 25 anni l’Onu e introdurre il codice identificativo sulle divise degli agenti. Entrambi i provvedimenti sono in vigore in molti Paesi europei. Per quanto riguarda il caso Aldrovandi, occorre destituire i quattro poliziotti pregiudicati e condannati in via definitiva, oggi tornati regolarmente ad indossare la divisa dopo aver scontato la pena. La violenza inaudita impiegata contro Federico, la mancanza di pentimento e di scuse alla famiglia, per uno di loro addirittura le offese rivolte alla mamma Patrizia, rilanciate per altro dai sindacati di polizia Coisp e Sap, nel silenzio complice delle altre sigle, gettano discredito sull’intero corpo di polizia e sui tanti che indossano con dignità la divisa.

Crede che la libertà di espressione sia totalmente garantita in Italia e che i giornalisti siano tutelati?

Credo proprio di no, e non a caso l’Italia è agli ultimi posti nelle classifiche mondiali sulla libertà di stampa. C’è un grande macigno che grava sul sistema d’informazione italiano e si chiama conflitto di interessi. Ne riparleremo quando sarà rimosso, ma constato che non è mai nell’agenda politica dei governi che si susseguono da un ventennio ad oggi. Neanche nell’ultimo.

Quali consigli darebbe agli aspiranti giornalisti di inchiesta?

Come diceva Albert Londres, inviato francese in Russia durante la rivoluzione d’ottobre, «l’unica linea da seguire è quella ferroviaria».

Michele Alinovi

Questa intervista è stata realizzata grazie agli studenti della Scuola di giornalismo dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.