Giuliano Battiston è un giornalista e ricercatore freelance, socio dell’associazione indipendente di giornalisti Lettera22. Scrive per il manifesto, l’Unità, Lo Straniero, per l’agenzia IPS e per il webmagazine di informazione economica Sbilanciamoci.info, di cui ha coordinato la redazione. Cura il programma del Salone dell’Editoria Sociale. Da alcuni anni si occupa di Afghanistan con viaggi, inchieste, reportage e ricerche, e ne è uno dei maggiori esperti internazionali.
Giuliano, perché oggi è importante continuare a parlare di Ilaria Alpi e ricordarne la memoria?
Perché rappresenta il modello del “buon giornalismo”: del lavoro scrupoloso, appassionato, onesto, pulito. Quello che si fa sul campo, quando si è disposti a correre anche dei rischi di natura personale, e significativi, per ciò in cui si crede.
Hai appena fatto riferimento ai rischi di questo lavoro, e proprio riguardo ad essi volevo rivolgerti una domanda di natura più intima: il “rischio” fa parte di questa professione, o per lo meno di una parte di essa. Kapuscinski, Terzani e la stessa Ilaria ne erano perfettamente consapevoli e disposti ad accettarne le conseguenze. Qual è secondo te, se credi esista, il confine, il limite presso il quale decidere di fermarsi?
Inizio col dire che non esiste un limite universale o trasversale, ognuno il limite se lo da autonomamente. Ogni giornalista lo identifica in materia personale, molto dipende dal tipo di contesti con i quali si ha a che fare e dal modo con cui si ha intenzione di lavorare.
E da un punto di vista strettamente personale, qual è il limite che tu scegli di rispettare? Dinnanzi a cosa sei disposto a fermarti?
Il limite che mi do è quello di non scavalcare e prevaricare gli altri. Spesso le storie che racconto sono storie di sofferenza, e il confine che cerco di rispettare è quello di non strumentalizzarle, di mantenere piuttosto un equilibrio tra la necessità di raccontare e il rischio di cadere nel voyeurismo. Come ricorda Kapuscinski, la fonte primaria di questo lavoro sono gli altri, e con gli altri bisogna saper dialogare, interagire. Il giornalismo è un prodotto collettivo: il cinico non è adatto a questo mestiere, perché a volte bisogna saper rinunciare a se stessi. Il rischio del narcisismo è fortissimo.
Esiste secondo te, ad oggi, un problema riguardo l’etica del giornalismo? Si rischia troppo spesso di superare questo confine per diventare in qualche modo autocelebrativi e, se sì, sarebbe opportuno alzare il dito contro chi lo supera per assicurare il più possibile un certo rispetto della professionalità?
In particolare, per chi pratica il giornalismo in zone di conflitto questo problema c’é, il rischio di avere un atteggiamento voyeuristico nei confronti delle storie da raccontare è elevato. Molti studiosi, che si sono occupati di questo, fanno riferimento al fenomeno del “feticcio del conflitto”: cioè l’idea che per descrivere una certa realtà non si possa prescindere dal raccontare e descrivere in maniera cruenta la violenza fisica del territorio, quando invece quest’ultima è piuttosto il prodotto di un altro tipo di violenza, meno individuabile ma non meno strutturale, di natura culturale, sociale ed economica.
Torniamo a Ilaria Alpi. Con la desecretazione degli atti ufficiali sembra emergere con sempre maggior forza l’ipotesi secondo la quale sia stata assassinata per aver scoperto il traffico di armi e rifiuti tossici in Somalia. Tuttavia, alcuni esponenti del mondo del giornalismo la vedono diversamente, e fanno tutt’ora riferimento ad ipotesi alternative: sposi anche tu la versione ufficiale oppure hai delle riserve?
Non ho elementi sufficienti per esprimermi su questo punto. Piuttosto l’importante è interrogarsi su cosa rappresenti Ilaria Alpi oggi.
E cosa rappresenta per te?
Il coraggio. La passione. L’onestà di fare bene questo lavoro.
Qual è la prima parola che ti viene in mente se parliamo di Ilaria Alpi? Ad ogni ospite chiediamo una parola, una soltanto: qual è la tua?
Curiosità autentica. Se penso a Ilaria, mi viene in mente questo.
Giulia Ugazio