C’è tempo fino al 31 maggio per partecipare al Premio Giornalistico Televisivo Ilaria Alpi, in programma a Riccione dal 4 al 7 settembre (il bando è reperibile al sito www.premioilariaalpi.it).
In attesa di conoscere i finalisti, ripercorriamo la storia del premio che quest’anno taglia il traguardo della ventesima edizione con le interviste ai vincitori. Oggi intervistiamo Demetrio Volcic Premio alla Carriera nel 2010.
Venticinque anni da inviato e corrispondente fra Praga, Bonn e l’Unione Sovietica, un lungo incarico fuori dall’Italia che lo ha portato a conoscere in profondità le dinamiche dell’Est europeo, Demetrio Volcic è un pezzo di storia del giornalismo italiano. Nato a Lubiana nel 1931 ed entrato in Rai nel lontano 1956, la sua voce ha accompagnato il cammino delle rivoluzioni nei Paesi dell’Est e raccontato lo sgretolamento dell’Urss. Ha diretto il Tg1 nel biennio 1993-’94. Professore di scienze diplomatiche internazionali a Trieste e parlamentare europeo, ha vinto il premio Ilaria Alpi alla carriera nel 2010, quando era già in pensione.
Che valore ha questo Premio nella realtà giornalistica italiana?
È un premio molto importante, un riconoscimento prestigioso in una carriera giornalistica: conferma che le persone non si sono dimenticate di te. Grazie all’impegno dei genitori di Ilaria questo premio è diventato un’occasione per non dimenticare la sua storia.
Che ricordo ha di Ilaria o, se non l’hai conosciuta, dell’episodio della sua morte? Ha rapporti con la famiglia, con i genitori di Ilaria?
Ilaria l’ho conosciuta poco: allora lei lavorava per il Tg3, mentre ero direttore del Tg1. Sono rimasto sorpreso dalla sua partenza per la Somalia, che al momento non era esattamente in cima agli interessi mediatici: evidentemente ha avuto un’intuizione per partire.
Quali sono i valori dell’operato e della professionalità della Alpi che sente anche suoi?
Credo che coraggio e curiosità siano le caratteristiche principali.
È soddisfatto delle risposte date dalle inchieste sulla morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin?
I genitori di Ilaria non hanno mai creduto all’ipotesi di un semplice attacco terroristico o di una banda di ladri, persuasi che ci fosse un sottofondo da indagare. Hanno tenuto aperte tutte le possibili piste: probabilmente doveva trattarsi di lavori eseguiti in modo scorretto che, se denunciati dalla stampa, avrebbero colpito gli interessi di un gruppo di persone. Personalmente non posso sapere di più. Credo che se i genitori e l’associazione avessero visto chiaramente una strada da seguire, l’avrebbero fatto fino in fondo.
Si arriverà mai a una verità definitiva?
Il presidente del Consiglio ha deciso da poco di dare trasparenza, per quanto possibile, ai documenti segreti dei casi dubbi o poco chiari. Si spera che anche il caso di Ilaria e Miran, un giorno, possa uscire dal bagaglio dei segreti italiani.
Nella sua lunga esperienza di inviato e corrispondente dall’estero ha mai vissuto situazioni pericolose?
Questa è la regola per chi lavora in determinati posti. Dipende da dove ci si trova. Diciamo che in certe parti del mondo è molto frequente trovarsi a rischio.
Con uno sguardo a ciò che sta succedendo per esempio in Ucraina, pensa che sia più pericoloso fare l’inviato oggi o ai suoi tempi?
Finora giornalisti morti in Ucraina ne abbiamo visti pochi. Il giornalista di solito non sta sul campo: molte guerre si sono combattute dai terrazzi degli alberghi con il cannocchiale; certo, ci sono stati dei colleghi che hanno rischiato di più, come Egisto Corradi o Bernardo Valli. Oggi il giornalismo si serve molto della tecnologia, che però può essere pericolosa. Per esempio, per la facilità di diffusione di false notizie.
Questa intervista è stata realizzata grazie agli studenti della Scuola di giornalismo dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.