Isabella Ciotti ha intervistato il regista Manfredi Lucibello. Un film sulla strage della Moby Prince che racconta anche della nave sulla quale indagava Ilaria Alpi.
Centoquaranta è il numero delle persone che la notte del 10 aprile 1991 persero la vita a bordo del Moby Prince, avvolto dalle fiamme dopo lo scontro con la petroliera Agip Abruzzo, al largo di Livorno. Ventitre gli anni trascorsi dai familiari delle vittime senza trovare qualcuno da incolpare, due le inchieste portate a termine con l’assoluzione di ogni indagato, un solo superstite. Incalcolabile, invece, il numero dei depistaggi e delle manomissioni che in questi anni hanno impedito di giudicare, punire e dare un senso a quelle centoquaranta singole tragedie.
Un incidente, si dice, causato da un errore umano imputabile all’equipaggio del Moby Prince e dalla nebbia di quella notte. Il caso è chiuso. Se non fosse che nelle successive ispezioni i periti trovano tracce Samtex, l’esplosivo usato per le stragi del treno Italicus e di via D’Amelio. Se non fosse che giorno dopo giorno dal relitto spariscono alcuni strumenti tra cui la scatola nera, e che lo stesso nostromo Ciro di Lauro confessa di aver manomesso il timone tra una perizia e l’altra. Se non fosse che quella notte insieme al Moby Prince c’erano anche altre navi tra cui la October 2, sulla quale indagherà in seguito Ilaria Alpi.
Pezzi di verità ben nascosti, troppo sottovalutati e ora sufficientemente ingialliti dal tempo. Per chi in quegli anni non c’era, o per chi c’era ma non è stanco di farsi domande, arriva il documentario del regista fiorentino Manfredi Lucibello, in concorso al Bellaria Film Festival di quest’anno e vince il CONCORSO ITALIA DOC.
Centoquaranta – la strage dimenticata ci restituisce oggi la cronaca di quei giorni, mettendo finalmente ordine a quel tavolo sui cui in molti hanno messo le mani. E con una lucida e fredda ricostruzione dei fatti, tra filmati di repertorio e materiali d’indagine, restituisce a centoquaranta persone un po’ di quella dignità perduta tra la nebbia, il fuoco e le bugie degli uomini.
Com’è stato mettere le mani in una storia già manomessa come quella del Moby Prince? Quali sono state le principali difficoltà?
E’ stato un percorso lungo, e difficile è stata soprattutto la ricerca del materiale d’archivio del Tribunale di Livorno, al quale potevo accedere solo se accompagnato da un pubblico ufficiale. Il ricordo che ho è di uno studio della documentazione in stanze umide, tra vecchi VHS e tracce in stato di abbandono.
C’è una forte volontà di dimenticare questa tragedia, per questo gran parte del merito va ai presidenti delle associazioni “140” e “10 Aprile”, Loris Rispoli e Angelo Chessa, reduci da un impegno ventennale alla ricerca della verità. Io l’ho cercata nelle immagini più che nelle persone, tentando di far luce su elementi che già esistevano, che erano a disposizione di chi doveva giudicare e invece non l’ha fatto.
Quella del Moby Prince è una storia di depistaggi, di falsità certe più che di verità certe. Quale di queste ti ha colpito, o inquietato di più?
Sicuramente il video in cui vediamo i periti durante i sopralluoghi. Possiamo sentirli mentre si interrogano sul perché le cose che in un primo momento non andavano, al loro ritorno sono state sistemate. Mancavano pezzi o venivano aggiunti, non sapevano più nemmeno loro come gestire la situazione. I filmati, in cui i vari pezzi appaiono e scompaiono, mostrano chiaramente la semplicità e la noncuranza di chi ha sabotato le indagini, agendo come un impunito, sicuro di farla franca.
E a livello giudiziario, cosa ti è rimasto più impresso?
C’è stato un pm, incaricato di seguire la vicenda dall’inizio, che è stato sostituito proprio il giorno prima del processo. Al suo posto Carlo Cardi, che anziché muovere delle accuse ha chiesto l’assoluzione per tutti. Ma mi ha colpito anche la figura del giudice Lamberti, che ora è stato condannato in via definitiva a 4 anni e 9 mesi per lo scandalo dell’Elba (l’accusa era di corruzione in atti giudiziari nei recenti casi di abuso edilizio). Lungi dal voler arrivare a facili conclusioni, credo che se si è fatto corrompere per una storia così semplice come quella dell’Elba, sia lecito avere dei sospetti per una vicenda così importante come quella del Moby, attorno alla quale potevano girare molti soldi.
Come si intreccia la vicenda del Moby con quella di Ilaria Alpi?
Entrambe le vicende evidenziano come nel porto di Livorno succedeva di tutto e di più. Era un pezzo d’Italia non in mano al governo italiano, sede di traffici militari e di armi belliche. Quella notte c’era anche la nave italo – somala su cui ha indagato Ilaria, donata da Craxi per obiettivi umanitari e invece utilizzata per caricare armi e rifiuti tossici. Quella nave era lì, ne abbiamo la certezza, ma non ci sono prove che abbia avuto un ruolo nella tragedia del Moby. Ad ogni modo la sua presenza resta una testimonianza, un segnale forte che in quel porto non era possibile indagare a fondo.
Intanto in parlamento è stata richiesta la riapertura del caso. Credi che si arriverà a una verità?
Non credo si arriverà alla totale verità su quella notte, ma sui depistaggi, sul perché hanno manipolato quelle prove sì. Io non ho fatto una ricerca impossibile, è da parte di chi se n’è occupato allora che c’è stata una sufficienza sconcertante. Un esempio è il caso della nave fantasma Theresa: l’hanno cercata per anni quando bastava confrontare le diverse tracce audio per capire che Theresa era un nome in codice della Gallant 2. Se riaprissero il caso e controllassero i radar, non dico quelli americani ma almeno quelli italiani, si potrebbero capire le posizioni di ciascuna nave, e chiudere almeno un capitolo.
Cosa ti ha lasciato, al di là del successo ottenuto, Centoquaranta?
Ho cominciato questo film a 26 anni e l’ho concluso a 29, praticamente ci sono cresciuto. E a un iniziale senso di speranza e giustizia nel tempo si è sostituito un senso di resistenza, la stessa che ho trovato nelle persone coinvolte in questa vicenda. Ho conosciuto un’umanità che mi ha profondamente toccato, ma ho anche capito le “regole del mondo”, quelle che non vorresti sapere ma con cui finisci per scontrarti. È una storia da cui non tornerò più indietro.
Isabella Ciotti