Minacciata di morte e aggredita per aver denunciato la corruzione del governo camerunense, la giornalista Agnes Taile è stata insignita oggi, sul palco del Premio Ilaria Alpi, dal premio speciale per il valore e il coraggio dell’UniCredit Women Leadership Award. Nata nel 1980 a Garoua, nel nord del Camerun, ha iniziato a lavorare come giornalista ad appena 17 anni. Nel 2005 ha condotto À vous la parole, un programma radiofonico in cui, oltre a trattare temi sensibili come l’omosessualità e la corruzione del governo, criticava l’amministrazione del presidente Paul Biya, dando spazio in diretta alle denunce degli ascoltatori. Dopo aver ricevuto numerose minacce, nel 2006 è stata rapita e picchiata de tre uomini che dopo aver tentato di strangolarla l’hanno gettata in un burrone credendola morta. À vous la parole è stato sospeso e gli assalitori non sono mai stati trovati, ma Agnes è andata avanti lavorando per la televisione: nel febbraio del 2008 è stata tra i pochi reporter che hanno raccontato il conflitto in Ciad.
Premiata nel 2009 con il “Courage in Journalism Award” dell’International Women’s Media Foundation, Taile lavora oggi a un progetto giornalistico per le comunità africane negli Stati Uniti, e scrive su Le Septentrion, un giornale online focalizzato sui temi di attualità del Camerun.
Cosa si prova a ricevere un riconoscimento dedicato alle donne coraggiose in un contesto come quello del Premio Ilaria Alpi?
Ne sono orgogliosa, ho letto la storia di Ilaria, era una donna eccezionale. Mi sono stupita quando ho ricevuto la mail. È stato come ricevere un incoraggiamento, come se mi dicessero “continua così Agnes”. Il giornalismo deve essere sostenuto, è bello vedere il nostro lavoro riconosciuto in tutto il mondo.
La sua attività giornalistica l’ha portata a correre forti rischi. Che cosa infastidiva maggiormente il governo camerunense?
Ai governi non piace che si parli dei loro affari. Spesso hanno costruito il loro potere in modo non chiaro e hanno paura di perdere ciò che hanno conquistato attraverso la corruzione. Non vogliono che si scavi nel loro passato e non vogliono che le cose cambino.
Lei ha lavorato per radio e tv, ora per un giornale online. Questo tipo di giornalismo le permette una maggiore libertà?
Sì, decisamente. Io ho il mio sito e sto provando a usarlo per continuare a dare informazioni, come un broadcast personale, un giornale o una tv. Purtroppo con i new media c’è un problema: molti paesi come quelli africani non hanno la possibilità di usare il computer. Non è come nel resto del mondo. Ci sono persone che non hanno mai visto un pc nella loro vita. Spesso si trovano a dover scegliere fra il pane e l’informazione ed è ovvio che devono scegliere il pane. In Africa avere la connessione costa un dollaro, ma le persone vivono con meno di un dollaro al giorno. Bisogna fare in modo di raggiungere il livello degli altri Paesi.
È possibile secondo lei paragonare il rapporto fra informazione e potere nel suo paese d’origine, l’Italia e l’America, dove vive ora?
È difficile fare un confronto di questo tipo. Penso che parlare dei governi non sia facile in nessun caso, sia negli Stati Uniti che in Italia che nel resto del mondo. La libertà cambia in base ai temi di cui parli. Negli Usa la gente tratta Obama come un amico e i giornalisti come una persona comune, parlano della first lady, fanno commenti su come si veste, sulla sua acconciatura… in Camerun e in altri Paesi questo non è possibile.
Sta continuando a scrivere del suo Paese anche dagli Stati Uniti. Che cosa è cambiato rispetto a quando si trovava in Africa?
Sono due giornalismi diversi: quello vero si fa sul campo, non stando in uno studio con le braccia conserte a dire la propria opinione. Vorrei tanto tornare in Camerun perché amo raccontare le cose a chi ne ha veramente bisogno, a chi non si aspetterebbe mai di sentire una voce alzarsi. Amo cercare le mie storie direttamente sul posto e portarle al pubblico, non costruirle da lontano. Mi manca questo modo di lavorare, come facevo in Africa, e ci tornerò. Non mi fermeranno, anche se so che mi seguono. Anche qui, anche ora.
di Sara Mariani e Elisa Zanetti