Perchè ho dedicato una rosa a Ilaria. Intervista a Davide Dalla Libera.

Sono passati ormai vent’anni da quel 20 di marzo 1994, “il più crudele dei giorni”, il giorno in cui Ilaria e Miran persero la vita. Tantissime, ad oggi, sono le iniziative che ne tengono viva la memoria. Molti hanno saputo raccontare una storia di straordinario coraggio utilizzando i linguaggi più diversi: il cinema, la poesia, la musica, la letteratura.E una rosa. Grazie al lavoro di Davide Dalla Libera, la storia di Ilaria verrà raccontata anche a chi saprà apprezzarne il profumo, quello di una rosa arbustiva bianca, che si tinge di rosa poco prima di sfiorire. Ne abbiamo parlato con Davide, il suo ottenitore.

Prima di cominciare, chi sei e come definiresti il tuo lavoro?

Potrei definirmi un “giovane produttore di rose”, che finito l’istituto agrario ha deciso di sperimentare sul campo la sua passione: per le rose in particolare e per le iris. Una conferma che la strada che stavo percorrendo era giusta è arrivata nel 2009, a 24 anni, quando ho vinto la medaglia d’oro come migliore rosa Italiana al concorso di Monza. Un premio piccolo, sicuramente, ma mi ha dato l’occasione di ritrovarmi subito dentro a questo mondo.

Come si produce una rosa, quali sono i tempi di realizzazione?

Nel mio lavoro occorre molto l’animo dell’artista. Ciò che si deve capire è che dietro ad una nuova rosa ci sono due mondi: una parte visibile dalle persone, da fuori, cioè “commerciale” e la vendita. Ma dietro c’è tutta l’altra lunga parte di lavoro che riguarda lo studio e la coltivazione. Per ottenere una rosa ci vogliono dai sette agli otto anni, questo dall’inizio alla messa sul mercato. E tutto questo lavoro invisibile non viene retribuito: quindi l’unico modo per farlo è esserne completamente appassionato.

Come nasce l’idea di dedicare una rosa ad Ilaria?

È stata una ispirazione. Era l’agosto del 2011 quando ho scritto all’associazione di Riccione (che ringrazio per l’apertura e disponibilità) e in quel periodo della mia vita vivevo due momenti contrastanti. Da una parte l’apertura del vivaio, a cui avevo iniziato a lavorare nel 2009 ma il progetto si è poi concretizzato nel 2011, e quindi tutta la burocrazia e gli affari che dovevo affrontare. Dall’altra, invece, la parte creativa: quando andavo a vedere le rose, quando ero vicino alla natura, era come se lei stessa mi dicesse di andare avanti: “se tu non vai avanti a noi non ci vedrà più nessuno”, come se solo io potessi mostrare al mondo queste piante. Quindi da una parte c’era il conflitto, stavo lasciando l’università per dedicarmi interamente al lavoro e dovevo affrontare tutta la valanga burocratica, ma quando guardavo queste piante mi sentivo incoraggiato a proseguire. Guardando su internet che nome avrei potuto dare alle rose, o a quale concorso mandarle, sono capitato per caso nel sito del premio Ilaria Alpi. Ho continuato a navigare nel sito e mi è tornato in mente quel momento di vent’anni fa, quando abbiamo saputo della morte di Ilaria: avevo otto, nove anni quando è successo, ma già da bambino in qualche modo avevo realizzato che era successa una cosa grave. Per me l’idea del giornalista era sempre stata di una persona composta e controllata: vederli piangere in televisione mi ha mostrato subito quanto fosse accaduto. Così, seguendo i ricordi che mi tornavano in mente, sono rimasto dentro al sito internet e ho continuato a leggere e nel farlo ciò che più mi ha colpito di tutta la storia è stata la tenace richiesta di verità degli amici e familiari di Ilaria e Miran. Per associazione di emozioni, tra il bambino e l’adulto, sono stato spinto a ricordare quanto per me la natura, le piante e la terra siano sempre stati elementi curativi degli strappi e delle ferite dell’anima. Quanto, poi, questi elementi possano rendere eterno ciò che è effimero, risanando lo smarrimento umano nel non sapersi spiegare gli eventi. Stavo vivendo una situazione difficile, in qualche modo l’ho proiettata nella storia di Ilaria: visto che a me la natura mi ha spinto ad andare avanti e mi ha sempre salvato, chissà se a queste persone poteva fare lo stesso? In sostanza mi sono chiesto se sarebbe stato un bene, se avrebbe dato sollievo a coloro che tutt’oggi soffrono per Ilaria, lasciare che la sua immagine fosse ricordata da un fiore. Poi si può guardare anche alla rosa stessa: il fatto che prima sia bianca, quindi qualcosa di puro, di candido, e poi si tinga di rosa, l’aspetto femminile, la donna che è stata Ilaria. Quando, infine, sua mamma mi ha detto che le piacevano i fiori bianchi mi sono detto che questa rosa doveva avere il suo nome.

Ripensando ad Ilaria e Miran, cosa pensi che ti abbia dato, oggi, la loro storia?

Mi trovo in qualche modo accomunato a loro. Nel loro lavoro c’era questo legame con la terra e l’ambiente, questa ricerca ostinata: un lavoro fatto con perseveranza ed onestà. Questa terra è il filo che mi lega a loro; in essa Ilaria e Mirano hanno scoperto sostanze che potevano inquinarla, io vi ho trovato questo fiore: è un po’ una terra che ritorna alla terra. Ma guardandoli, oggi, mi insegnano anche un grandissimo rispetto e una grandissima coerenza con il proprio lavoro. Essere una persona tutta d’un pezzo. Probabilmente altri, sapendo che correvano rischi e pericoli enormi, avrebbero mollato. Eppure loro, con i propri ideali, per la verità e la coerenza, appunto, proprio perché si erano resi conto dei danni alla terra dei somali hanno continuato. Non l’hanno fatto solo per dare una notizia: la motivazione più profonda era la loro etica. E ci hanno rimesso la vita. Questo è un grande insegnamento, che dovrebbe essere usato da icona in questi anni di corruzione e, alle volte, pressapochismo nel modo di lavorare. Poi parlando con la mamma di Ilaria è venuto fuori anche che lei non era di certo una ragazza arrivata fin lì con le raccomandazioni: è anche un esempio di come si possa arrivare, di come si possa riuscire con le proprie capacità. Purtroppo loro ci hanno rimesso la vita, ma a noi resta moltissimo dalla loro storia. Possono rimanere vivi attraverso la memoria del buono che c’era in loro. Ed è un po’ quello che vuole fare la rosa: se noi guardiamo la natura, anche un fiore, come un qualcosa di eterno, perché in grado di rinnovarsi molto più che l’uomo, quella natura e quel fiore possono rimanere anche dopo la morte, quindi portare avanti l’immagine di lei. Affidarsi alla natura affinché porti avanti ciò che l’uomo non può spiegare.

Pensando al tuo lavoro, alla rosa che hai prodotto, mi è venuto in mente un passo de “Il piccolo principe”, in cui lui accudisce la sua rosa. Cosa pensi ci sia in comune tra Ilaria e la tua rosa?

Non tanto un qualcosa di morfologico, degli aspetti esterni. Vorrei piuttosto guardare a ciò che rappresenta, a quello che non si vede; proprio come dice il piccolo principe: “l’essenziale è invisibile agli occhi”.Così il profumo, per esempio, che per una rosa bianca è inusuale: il profumo della rosa lo associamo alla sua essenza libera, quel profumo che va via col vento ci fa ricordare lei e il suo spirito libero. Sì, vorrei associare Ilaria a tutto ciò che non si vede: piuttosto che al fatto di essere resistente, o che cresca in modo eretto.Ma soprattutto a quel profumo: è impossibile da controllare, sarebbe come controllare l’aria. E quindi si tratta di un auspicio di estrema libertà, per quella persona che è stata uccisa dagli uomini ma può essere salvata dalla natura: dal profumo di questa rosa.

Dove potremo ammirare la rosa “Ilaria Alpi”?

Sarà mostrata in anteprima a Roma, dove verrà piantata nel primo luogo pubblico: l’orto botanico di Roma. Lì farà parte della collezione permanente del roseto.

Elia Pasolini

rosaok