Barbara Serra: “Ilaria rappresenta il coraggio e la passione per il giornalismo”

Barbara Serra è una giornalista italiana, da anni all’opera in Gran Bretagna e apprezzata anche in Italia. Al Premio Ilaria Alpi 2014 ha presentato Gli italiani non sono pigri edito da Garzanti e condotto la serata dibattito di giovedì sulle crisi internazionali. Dopo aver lavorato presso le redazioni della BBC, di Sky News e di Channel 5 News, attualmente è conduttrice alla redazione di Londra di Al Jazeera English. Per l’emittente araba ha realizzato importanti inchieste a Washington, dalla Striscia di Gaza, in Israele e Cisgiordania. Nella primavera del 2011 ha condotto su Rai3 il programma televisivo Cosmo. E’ la vincitrice della terza edizione del Premio Letterario Caccuri 2014 con Gli italiani non sono pigri.

Barbara, perché è importante continuare a parlare di Ilaria Alpi e ricordarne la memoria?

Non conoscevo personalmente Ilaria, ma lei rappresenta il coraggio, la passione per questo lavoro, la ricerca della verità.  E’ sorprendente che, a oltre vent’anni dalla sua scomparsa, il suo ricordo sia ancora così vivo e profondamente sentito: questo è ciò che maggiormente mi colpisce. In Italia tutti sanno chi sia Ilaria Alpi, anche chi non era ancora nato. Non capita spesso una cosa del genere.

Come mai, secondo te?

Tanti giornalisti accettano di rischiare la loro vita, molti sono rimasti vittime delle guerre e non sono più tornati a casa. Ma per quanto riguarda Ilaria c’è dell’altro: incarna tutt’oggi, probabilmente, la ricerca della verità, la necessità di continuare ad andare fino in fondo per trovarla. Sarà anche perché si tratta ancora di una vicenda aperta, perché tanto c’è ancora da capire.

Hai appena fatto riferimento i rischi di questo lavoro: a volte, il rischio sembra essere un prezzo inevitabile da pagare per coloro che decidono di intraprendere questa professione, o almeno per una parte di loro. Secondo te, c’è un limite, un confine dinnanzi al quale fermarsi? E, se sì, qual è?      

Solo con l’esperienza è possibile rispondere a questa domanda. Solo l’esperienza permette a un giornalista di imparare a valutare quanto più correttamente possibile il rischio che si trova davanti. Alla BBC, così come ad Al-Jazeera, i giornalisti che devono partire come inviati in zone di conflitto seguono dei corsi di formazione durante i quali ricevono nozioni di pronto soccorso e imparano cosa fare in situazioni di emergenza: se si viene rapiti, come muoversi nelle vicinanze di un campo minato o durante una sparatoria, come relazionarsi con gli abitanti del luogo. Se non si seguono questi corsi, non solo non si può partire, ma non viene stipulata neanche alcun tipo di assicurazione. Le grandi emittenti internazionali sono molto attente a tutelare i loro professionisti, il problema purtroppo si presenta in tutta la sua complessità per i giovani freelance che partono spesso senza alcuna tutela internazionale e professionale alle spalle.

In Italia stiamo vivendo e attraversando una profonda crisi del giornalismo: cambiano gli strumenti, il modo di lavorare e la produzione di contenuti. Cosa consiglia ai giovani che oggi vorrebbero intraprendere questo lavoro?

Innanzitutto, la crisi che sta attraversando il giornalismo non è solo italiana, ma internazionale. I nuovi media e i nuovi strumenti tecnologici hanno rivoluzionato il nostro modo di lavorare. Ma non dovrebbe cambiare la cosa più importante: il fine ultimo, che è quello di raccontare. Il giornalismo è fatto di storie e idee. Ci sarà sempre bisogno di contenuti, di persone capaci di realizzarne con professionalità e qualità. Ai giovani che vorrebbero fare questo lavoro, io consiglio di saper guardare oltre il presente: di chiedersi cosa potranno fare tra vent’anni, di cosa ci sarà bisogno a medio e lungo termine. Io, a trentadue anni, già lavoravo come giornalista: ma mi sono chiesta dove e come avrei potuto continuare a far bene il mio lavoro, così ho scelto di puntare su Al-Jazeera.

Una scelta vincente. Perché Al-Jazzera è diventata così importante in poco tempo?

Prima di Al-Jazeera c’erano solo le grandi emittenti occidentali a raccontare la realtà internazionale, anche quella del mondo arabo. Non entro nel merito del come, se bene o male, non si tratta di questo. Semplicemente c’erano solo loro, soltanto la loro voce. Così il mondo arabo si è detto: “Perché dobbiamo lasciare che siano gli altri a parlare di noi, a raccontarci?”, e ha iniziato a far sentire anche la sua voce. Lo fa con qualità. Non lo dico solo perché ci lavoro, ma perché anche altri riconoscono i suoi meriti: insieme alla BBC è diventato il canale d’informazione più seguito al mondo.

Il suo libro, “Gli italiani non sono pigri”,  ha vinto il Premio Letterario Caccuri 2014. Di cosa hanno bisogno gli italiani, considerati all’estero pigri, inerti e inefficienti?

Hanno bisogno, e soprattutto i giovani, di essere più competitivi. Qui c’è una forte tendenza a leggere la parola competitività in un’accezione negativa. Altrove non è così. Soprattutto, non è così a Londra. Faccio un esempio: anche i curricula inglesi sono molto più competitivi rispetto a quelli italiani. Non dico assolutamente che bisogna falsificarli, scrivendo il falso, ma saperli compilare al meglio sì. All’estero lo sanno fare. C’è un approccio diverso. Meritocrazia non è una parolaccia: invece in Italia sembra esserlo diventata. La competitività è un fattore positivo, imprescindibile, in ogni contesto lavorativo. In Italia non è vero che non si lavora, si lavora tanto, perfino più che all’estero. Ma non siamo efficienti. Ai giovani dico di non scoraggiarsi, di credere in se stessi, di ricordare che nulla è loro dovuto e che devono lottare per conquistarsi il loro spazio. Soprattutto, non devono scoraggiarsi. Io sono qui, a parlare con te, perché due o tre scelte professionali nel corso della mia corriera si sono rivelate azzeccate. Ma ce ne sono state tante altre che non sono andate a buon fine. Bisogna saper accettare gli errori, gli sbagli, i fallimenti. Qui in particolare, in Italia, si tende troppo a condannare i giovani, a far loro credere di non essere all’altezza. Non è così: dopo un fallimento bisogna rialzare la testa e crederci più di prima.

Torniamo a Ilaria Alpi. Ad ogni ospite chiediamo una parola, una soltanto, per ricordarla: a Lei quale viene in mente se pronuncio il suo nome?

Coraggio. Sarà banale, e due persone su tre avranno risposto allo stesso modo a questa domanda. Ma non ho dubbi, la mia parola è: Coraggio.

Giulia Ugazio