Mario Calabresi: “Il giornalista? Necessita di sguardo appassionato, come Ilaria”

Per la prima volta nella storia del Premio Ilaria Alpi, il direttore di un giornale è stato invitato a partecipare alla giuria di premiazione, a suggellare il saldo legame tra il mondo della carta stampata e del multimediale. Mario Calabresi, direttore de “La Stampa”, ha preso parte all’assegnazione del premio Alpi, tenendo una lectio su “Gli esteri all’italiana – Come i media italiani raccontano la politica internazionale”.

“È stato completamente abbattuto il muro; oggi ci sono storie nuove che hanno bisogno di un linguaggio diverso. Per l’anniversario del genocidio in Ruanda, la Stampa ha pubblicato molti articoli di approfondimento, ma l’investimento più grande che è stato fatto, è stato quello di un webdoc, che raccontasse la storia di un villaggio ruandese con le sue vittime e i suoi carnefici. Oggi c’è moltissimo da sperimentare. Per chi viene dai giornali tradizionali, la sfida non è quella di rincorrere dei format, ma trovare quello che è il proprio DNA, raccontare in modo serio le storie del mondo, tradotte in un linguaggio giornalistico nuovo”.

Il tema che il direttore ha scelto di affrontare nel suo masterclass al Premio riguarda il modo in cui i media nazionali coprono le notizie estere. “Mi sembra che i giornali italiani non abbiano molto da rimproverarsi, anche se negli anni si è fatta strada l’idea che gli esteri non interessino, che non vendano. Questo spinge a raccontare degli esteri le cose più gravi oppure lo “strano ma vero”. Io penso invece che bisogna parlare degli esteri in modo continuativo e approfondito, utilizzando quei linguaggi multimediali di cui parlavo prima. La questione dei marò, ad esempio, è diventata solo una questione di politica interna. Da un lato c’è il centro destra che sostiene i marò, dall’altro il centro sinistra che li detesta. Bisognava capire come questa situazione fosse vissuta in India, ma non è stato fatto. Quando le cose diventano un derby Italia – India e si chiede a un calciatore di non andare a giocare in India, tutto diventa un dibattito surreale”. E sulla tendenza tipicamente italiana di stigmatizzare un paese o una cultura, solo nel momento in cui la si accusa di qualche colpa – prosegue Calabresi – “l’India è diventata protagonista in modo grottesco: è il paese in cui l’uscita dall’analfabetismo è più veloce e alta nel mondo. È il paese in cui, ad esempio, i giornali sono in crescita, in cui non c’è la crisi dell’informazione, perché sempre più gente impara a leggere e si avvicina ai giornali, ma continuiamo a raccontarla in modo grottesco”.

Sul valore dei reporter di guerra, gli unici che, per la grande crisi che ha investito la stampa, osano partire per i luoghi di conflitto, a proprie spese, aggiunge: “Ci sono moltissimi fotografi freelance che sono stati gli ultimi a testimoniare la Siria e a stare in piazza Maidan. Il problema vero sta nel modo in cui vengono pagati, perché quel tipo di lavoro non può essere pagato 100 euro. Tuttavia bisogna stare attenti, perché non si può andare in Siria e in Afghanistan in modo improvvisato, semplicemente perché si ha voglia di raccontare. In questo il giornalismo tradizionale ha sempre avuto degli iter: alle zone di conflitto e di guerra si arrivava solo progressivamente. Penso che si debba stare attenti: è drammatico, ad esempio, vedere con quanta leggerezza siano partite le due ragazze che sono state rapite in Siria. Se si vuole affrontare un’esperienza simile, bisogna partire informati sulla cultura di un luogo, sul suo popolo e le sue abitudini”

Per concludere, Ilaria, il messaggio che ci ha lasciato, la sua semplicità: “Siamo a vent’anni dalla sua morte e quello che resta intatto è la freschezza del suo lavoro, lo sguardo pulito e la passione. Oggi si parla tanto di come devono essere fatti i giornali e l’informazione e secondo me quello sguardo appassionato, ma fresco e curioso è il miglior consiglio che qualcuno si possa portare dietro”. Il direttore non appare fiducioso sull’iter della desecretazione e commenta: “La storia della desecretazione degli atti ha una parte positiva e un’altra che mi spaventa. Mai come in quest’ultimo periodo è stata data una spinta e un’accelerazione all’apertura degli archivi. Quello che mi chiedo è, una volta che sono stati aperti gli archivi, i documenti che poi sono stati effettivamente classificati, che sono in ordine, si potranno realmente trovare? Ad esempio gli Stati Uniti hanno una legislazione molto chiara su questo e ancora oggi sull’omicidio di Kennedy sessant’anni dopo, ci sono dei documenti che sono segreti e non si possono leggere. In Italia, invece, non abbiamo un elenco di ciò che c’è. La vera rivoluzione sarebbe aprire gli atti agli storici, aprire gli atti del Viminale e della Difesa e ordinare i documenti e fare degli indici ragionati, altrimenti uno apre una porta e poi dove si va?”.

Maria Panariello