Solange Lusiku Nsimire: “In Congo un giornalista può morire anche per una frase”

Solange Lusiku Nsimire, giornalista congolese, riceverà stasera a Riccione il premio che da cinque anni Unicredit assegna a una giornalista che, come Ilaria Alpi, ha dedicato la propria vita e il proprio impegno alla difesa della verità e della libertà di informazione in circostanze pericolose.

Il Congo è una terra devastata da una guerra infinita che negli ultimi venti anni ha provocato circa 8 milioni di morti. Le donne, soprattutto, ne hanno pagato il prezzo. Si parla di 500.000 stupri che hanno riguardato anche bambine di pochi anni. Qual è la situazione attuale nella Repubblica Democratica del Congo, segnatamente nel Kivu, la regione orientale del paese dove lei vive? 

La situazione è estremamente instabile. Ci sono ancora gruppi armati che imperversano e seminano morte. Abbiamo un’aspettativa di vita di 24 ore rinnovabili. La situazione è tale che chiunque può prendere in mano un fucile e ammazzarti. In questo momento ci sono agitazioni e manifestazioni di piazza contro il tentativo dell’attuale presidente Joseph Kabila di modificare la Costituzione per essere ottenere un terzo mandato elettorale. Una cosa antidemocratica e del tutto inaccettabile.

Dei crimini contro l’umanità, delle violenze e della corruzione presenti nel suo Paese lei parla dalle pagine del suo giornale indipendente Le Souverain, del quale è editore e redattore capo. Cosa significa essere giornalista in Congo? 

Quella del giornalista indipendente è una condizione davvero difficile. Intanto c’è l’estrema difficoltà di accedere alle fonti d’informazione. Poi c’è la precarietà. Non avendo finanziamenti, dobbiamo cercare altrove il modo per sostenerci. E poi, ci sono i rischi che questo mestiere comporta. Nel mio pese sono stati uccisi molti giornalisti e per questo alcuni scelgono di non dire le cose come stanno. L’interferenza della politica è sistematica. Ci sono uomini influenti che si rivolgono ai direttori dei giornali e comprano articoli che parlino di loro. Se si rifiuta, si è oggetto di minacce. Da noi una piccola frase può provocare la morte. A volte mi chiedo se in Congo dobbiamo essere uccisi per dire la verità. Almeno avremmo fatto un servizio alla comunità.

Lei è stata ed è oggetto di gravi minacce. Come vive questa condizione di costante pericolo?

Ogni volta che sono sotto minaccia di morte sento che creo problemi a tutti. Soprattutto ho paura per i miei figli. Una volta, la Monusco, la missione internazionale in Congo, mi ha avvisata che ero in pericolo di vita e mi ha consigliato di andare in Tanzania o in Uganda. Io lì, però, non conoscevo nessuno, così, con il mio figlio più piccolo sono andata a Kinshasa, nella capitale, dove sono rimasta 3 mesi. Mentre ero là ricevevo minacce via sms. Mi dicevano “Come ti viene in mente di dire tutto quello che vuoi? Ti abbiamo dato l’occasione di iniziare a scrivere su una pietra” e ho capito che il riferimento era alla pietra tombale. Un’altra volta, a mezzanotte, alcune persone hanno cercato di rompere i vetri della mia casa, a Bukavu. Abbiamo gridato fino a perdere la voce ma nessuno è venuto ad aiutarci. Io trovo la forza di resistere e di continuare un lavoro in cui credo nella mia famiglia. E poi credo molto in Dio e confido nella sua protezione.

Conosceva la storia di Ilaria Alpi?

No, non la conoscevo. Ma quando mi hanno chiamato per comunicarmi del premio mi sono informata, una giovane giornalista di 33 anni uccisa a Mogadiscio. Ho riflettuto sul fatto che è stata uccisa sul suolo africano e mi sono domandata se l’Africa deve continuare a raccogliere il sangue di giornalisti stranieri. Sono molto orgogliosa di essere qui. Questo riconoscimento è un incentivo a continuare il mio lavoro, a non arrendermi. Anzi, sento di dover raddoppiare lo sforzo e di migliorare ancora.

Marina Piccone

Servizio di Cristiana Mastronicola, Filippo Poltronieri, Marina Piccone