La strada di Ilaria. “Chi ha rubato l’astinenza al cuore per il silenzioso ardore?”

L’anteprima de La strada di Ilaria apre le danze della ventesima edizione del Premio giornalistico Ilaria Alpi. La platea rigonfia. Duecento posti acciottolati, attesa snervante. Il Teatro del Mare, nel cuore pulsante di una Riccione tirata a lucido per l’occasione, inghiotte il brusio del pubblico esitante. Una leggera melodia, un’eco lontano di una narrazione, di una storia che ostinatamente riemerge dalle nebbie di un passato doloroso, addolcisce l’impazienza per l’inizio dello spettacolo. “L’attesa è una disciplina”. Il reading teatrale, approssimazione limitante per uno spettacolo teatrale che ibrida, sperimenta e intontisce, vede alternarsi sulla scena, palcoscenico nero, glabro, con due seggioloni ai lati, Giorgia Penzo, Francesco Tonti e Lella Costa. Un telo opaco invece, scopiazzato da fasci di luce intermittente, nasconde la Scraps Orchestra. L’inizio è un tambureggiare, una vibrazione continua, una melodia che amalgama la ritualità ritmica del Corno d’Africa con cadenze decisamente europee. Si inaugura così la messinscena di una tragedia che riverbera ancora le proprie frustrazioni in un presente prosaico, anch’esso in attesa: l’omicidio della giornalista Ilaria Alpi e dell’operatore Miran Hrovatin, l’inchiesta, i rifiuti tossici e le armi, le indagini, la macchina del fango di un sistema ben oliato che occulta la verità e la frustrazione per una fine che non c’è. Il tutto è condito da narrazioni parallele che intrecciano più punti di vista, interpretazioni diverse di un racconto rimaneggiato, rivisitato da giornalisti incalliti, Francesco Cavalli –  suo il libro da cui è tratto lo spettacolo – o da principi del foro come Carlo Taormina, di cui si ricordano ormai note dichiarazioni. Gli attori, i loro volti, le parole scandite compongono immagini, luoghi e persone disegnate, come se fosse una magia, sul telo, sempre opaco ma irradiato da un proiettore, che separa la voce dall’orchestra. La strada di Ilaria emula la farsa della tragedia greca, tra episodi inframmezzati da stasimi, intermezzi musicali che decorano e imbellettano la furia immaginifica di Roberto De Grandis, che forgia la realtà su ordine della parola. Appare quindi in sordina l’asfalto rovente della strada di Bosaso, i bidoni sigillati nelle cave, Mogadiscio in lontananza, mentre riecheggiano gli spari assordanti di una guerra infinita, i sogni, le speranze di Assan e Abù, i “bambini guerrieri”,  le fronde di un’Acacia sullo sfondo perlaceo.  “Tutto è vendibile e chi lo compra lo sa” risponde canonico il corifeo. Ma non solo il passato rinfocola l’attenzione di un pubblico spazientito, inquieto per le scariche di tensioni, per gli alti e bassi di un urlo che reclama giustizia, ma gli orrori di Lampedusa, di quel conclamato presente solcato da migliaia di gommoni, da vite infrante, da ambizioni che la risacca del Mediterraneo spazza via, squarciano il velo di Maya. La liturgia imbarazza, eccitando l’atmosfera, per merito della regia di Davide Schinaia. Lella Costa però esagera volutamente: una time-line, anni e date che si susseguono, segni bianchi nella notte nera di una Somalia squadernata dal piombo rovente della morte, sovrasta la cronistoria recitata con il tragico epilogo di Ilaria, scandisce i tempi ipocriti delle Commissioni di inchiesta sul caso. “Si sa!” ripete l’attrice, ribadendo certezze, mettendo in discussione le sconfitte, i dubbi di un’epopea. Un inno alla conclamata desecretazione di tutti quei documenti che, oltre a porre fine alla tragedia di Ilaria, fornirebbe nuove narrazioni e punti di vista incredibili per le interpretazioni più disparate della Storia, chiude illusoriamente il fragore della scena. Il silenzio è denso di aspettative.

Maurizio Franco

Le fotografie a corredo sono di Riccardo Gallini.