Scorie
nucleari, rifiuti tossici, armi, riciclaggio di denaro sporco.
Il Paese l’africano, da otto anni ostaggio dei signori della guerra, è
stato scelto dalle diverse mafie come crocevia per ogni tipo d’affare
illecito. All’ombra dei servizi segreti.
Mogadiscio,
novembre
l
pilota impallidisce: «Non se ne fa niente. Nemmeno se mi date centomila
dollari». La soffiata avuta a Londra era precisa: «Provate ad andare
dieci chilometri a nord della città di Obbia e cinque dalla costa. Là
esiste un deposito di rifiuti altamente tossici, probabilmente radioattivi».
Alla richiesta di sorvolare quella zona, il nostro interlocutore, fin
lì d’accordo ad accompagnarci nelle zone settentrionali della Somalia,
reagisce d’impulso: «Ragazzi, vi tirano giù. C’è un cubo in cemento
armato di 30 metri per lato con dentro roba pesante. So che all’interno
sono custoditi dei cilindri alti quanto una bottiglia».
Il
deposito a nord di Obbia potrebbe essere uno di quelli previsti dal
progetto “Isola del sale”, studiato allo scopo di individuare (e attrezzare,
isolare, difendere) dei luoghi ove trasportare materiale nucleare. «A
partire dalla seconda metà degli anni Ottanta, americani e francesi
valutarono la fattibilità dell’operazione dando alla fine luce verde»,
ci aveva confidato a Roma una fonte che ha chiesto di rimanere anonima.
“Cartina della Somalia con i depositi dei rifiuti tossici.” Aldo Anghessa, un chiacchierato personaggio arrestato
e processato più volte, già collaboratore dei servizi segreti italiani,
aggiunge ulteriori particolari: «Il progetto è stato denominato “Isola
del sale” perché così viene comunemente chiamata la penisola di Haifun,
nella regione di Bosaso, che ospita enormi saline. E proprio l’estremità
nordoccidentale di quella penisola, disabitata, prevalentemente sabbiosa,
raggiungibile solo via mare, è stata scelta come deposito principale
del progetto. C’è un documento preliminare al riguardo che si conclude
sollecitando la creazione “di punti di osservazione antiaerea per eventuali
controlli a distanza”, giacché si sostiene a chiare lettere che l’unico
problema è la sua visibilità da un aereo. Oggi, lungo la costa centrosettentrionale
somala, ci sono cinque siti di quel genere».
«Il
deposito a nord di Obbia è operativo da circa un anno», precisa il pilota.
«Il luogo è sorvegliato giorno e notte. La guardia, però, la fanno altri,
non i somali. Lasciate perdere, tornate in Italia». C’è chi, più a sud,
nella regione del Basso Giuba, ha tentato di organizzare un deposito
di materiale nucleare. «Un paio di anni fa, alcune aziende straniere
ci hanno contattato a Nairobi», dichiara il generale Hersi Morgan, che
controlla Kisimayo. «Volevano un pezzo di terra per immagazzinare rifiuti
tossici e radioattivi sul mio territorio». Morgan dice di aver rifiutato.
Il
progetto “Isola del sale” è solo la punta dell’iceberg, il risvolto
più inquietante di un problema planetario come quello dello smaltimento
di scorie nucleari, rifiuti tossici, residui di lavorazioni industriali
inquinanti. I Paesi ricchi ne producono enormi quantità. Solo una parte,
però, viene trattata rispettando le leggi.
Buoni
guadagni e pochi rischi
Le
aree debitamente attrezzate per “lavorare” questi materiali comportano
alti oneri economici. «Smaltire correttamente rifiuti solidi urbani
oggi in Italia costa 150 – 400 lire al chilo; smaltire rifiuti pericolosi,
a seconda della categoria, può andare dalle 1.000 alle 10.000 lire al
chilo», spiega Massimo Scalia, presidente della Commissione parlamentare
d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti e sulle attività illecite ad esso
connesse.
La
criminalità organizzata si dimostra sempre più interessata a gestire
questo business, che assicura una buona redditività e comporta pochi
rischi, dal momento che le violazioni sono perseguite con scarso rigore.
Secondo una stima attendibile, il traffico illecito dei rifiuti frutta
– solo per quel che concerne l’Italia – circa 6 mila miliardi di lire.
Spesso
fusti e cisterne vengono spediti all’estero. Le destinazioni finali
sono scelte con cura. Si prediligono ovviamente i Paesi dilaniati da
guerre civili, dove è facile ottenere la disponibilità di pezzi di territorio
in cambio di forniture d’armi e di congrui finanziamenti ai contendenti
in lotta tra loro.
Nel
1987, tra Milano e Roma, viene messo a punto un progetto, definito “Urano”,
per insabbiare in tre località desertiche del Sahara grandi quantità
di rifiuti industriali tossico-nocivi. Il 5 agosto 1987 il protocollo
d’accordo è firmato da Elio Sacchetto, per la Compagnia Minera Rio de
Oro, e da Luciano Spada, per la Instrumag A.G. A promuovere “Urano”
(in Italia, in Europa, in Africa) risulta però essere Guido Garelli,
54 anni, che – secondo alcuni accertamenti – opera indifferentemente
con documenti di identità italiani, somali o dellAutorità territoriale
del Sahara, e ama presentarsi come Guy Soulmeyman Rinaldi.
Nei
documenti, tutti timbrati “classified”, si specifica che ogni cosa andrà
fatta «nel pieno rispetto delle leggi dei Paesi e delle norme sancite
dal diritto internazionale». Tra i materiali di cui si pianifica il
trasporto ci sono anche antiparassitari, bagni galvanici o acido nitrico
e, testuale, «resti di medicinali», nonché «rifiuti con composizione
sconosciuta».
Sul
finire degli anni Ottanta, quando il regime di Siad Barre entra in crisi,
l’attenzione dei trafficanti si sofferma sulla Somalia, nazione che
diventa una ghiotta preda allo scoppiare della guerra civile. «Gli incontri
e le conversazioni che cercheremo di avere verteranno sulla possibilità
di sviluppo del “Progetto Urano”, per la parte già nota (ricordiamolo:
smaltimento di rifiuti industriali tossico-nocivi, ndr), nel
Corno d’Africa», si legge tra l’altro in una “lettera d’intenti riservatissima”,
firmata il 24 giugno 1992 a Nairobi (Kenya) da Guido Garelli, Ezio Scaglione
(37 anni, nato in Piemonte, ad Alessandria, “console onorario della
Somalia”) e Giancarlo Marocchino, 56 anni, un italiano dal 1984 in Somalia.
Nell’agosto
e nel settembre dello stesso anno, Mustafà Tolba, segretario dell’Unep,
l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di protezione ambientale,
lancia l’allarme: «Ditte italiane scaricano rifiuti tossici in Somalia.
Non posso fare nomi, metterei a repentaglio la vita di molte persone».
Grazie
a quella pubblica denuncia, clamorosa quanto autorevole, laffare pare
sfumare. Stefan Weber, della sezione svizzera di Greenpeace, oggi rivela:
«Non è così. Quell’operazione ha sicuramente visto tre navi cariche
di rifiuti raggiungere il Golfo di Aden». L’8 settembre 1992, poi, un
telefax “confidenziale” trasmesso a Nairobi, alla sede dell’Unep, evidenzia
l’allarme suscitato ad Hargheisa dall’arrivo di 81 mila litri di «pesticidi
obsoleti».
L’Unep,
in seguito al moltiplicarsi delle segnalazioni, affida un’indagine sul
campo a Mahdi Gedi Qayad, già docente di Chimica all’Università di Mogadiscio
e suo consulente. La missione comincia il 10 maggio e termina l’8 giugno
1997. Il rapporto finale (l’Unep ne ha negato a lungo l’esistenza; Famiglia
Cristiana è riuscita ad averne una copia) riporta interviste e indizi.
Due gli episodi più rilevanti: la morte di un pescatore intossicato
dal contenuto fuoriuscito da una sacca trovata sulla spiaggia di Brava;
la presenza (documentata con foto e video) di una cisterna, lunga sei
metri, sulla costa compresa tra Ige e Mareeg, 350 chilometri a nord
di Mogadiscio.
Le
decine di testimonianze da noi raccolte nel viaggio compiuto in Somalia
consentono di redigere un lungo elenco di luoghi dove, con ogni probabilità,
negli ultimi 10 anni sono stati depositati rifiuti altamente pericolosi.
Partendo da sud, si tratta della città di Jamama (area di Kisimayo),
dell’area che circonda Merka, dell’acquitrino dove si spegne il fiume
Shebeli, della località chiamata Cinquantesimo, tra Merka e la capitale.
E
ancora: l’area di Mogadiscio (il 19 agosto 1996 il presidente ad
interim della Somalia Ali Madhi autorizza con decreto Ezio Scaglione
a creare un impianto per lo smaltimento di rifiuti tossici in località
El Baraf); Warsheikh, sempre a nord della capitale, dove secondo il
generale Morgan nel 1992 «vennero bruciati rifiuti nucleari»; la costa
che da Mogadiscio si spinge a settentrione, dove sarebbero stati scavati
numerosi depositi clandestini. Infine, una serie di interramenti a Johar,
lungo la strada Garoe-Bosaso, nell’altopiano desertico tra la regione
di Sanaag e quella di Bari. Per tacere degli scarichi fatti in mare,
al largo, segnalatici dai pescatori.
«Impossibile
sorvegliare i 3.300 chilometri di costa della Somalia», dichiara a Nairobi
Halifa Omar Drammeh, dell’Unep: «Uno dei nostri obiettivi prioritari,
per il 1998, è proprio la lotta contro lo scarico illegale di rifiuti
tossici nelle acque somale, ad opera di navi e società straniere».
Gli
effetti di una così prolungata opera di inquinamento non tardano a manifestarsi.
Strane malattie colpiscono uomini e animali. Quattro anni fa, per esempio,
un medico segnala a Merka un eccessivo numero di tumori alla lingua,
alla tiroide, al retto, e troppi casi di malformazioni neonatali. La
segnalazione non ha alcun seguito.
Nessuno
sa poi che fine abbia fatto l’indagine delle Nazioni Unite effettuata
in seguito alle due misteriose esplosioni udite il 5 e 7 dicembre 1995
nelle regioni di Sanaag, Berbera e Sol, nella Somalia settentrionale.
Nei giorni successivi, molti accusano difficoltà respiratorie e diarree.
Alcuni bambini muoiono.
Nel
gennaio 1997, sulla costa tra le regioni di Mudug e Nugal, dopo aver
bevuto l’acqua conservata in un bidone trovato sulla spiaggia, alcune
persone accusano dolori acuti all’addome. Hanno emorragie allo stomaco
e alla bocca. Molti muoiono, alcuni dopo essere stati trasportati in
aereo all’ospedale di Médecins sans frontières di Kisimayo. Un episodio
analogo si verifica da tutt’altra parte, nel villaggio di Ellanleh (regione
del Galgadud): è l’agosto di quest’anno.
Tra
il gennaio e il febbraio 1998, nel basso Shebeli (Sud Somalia) si parla
di decine di morti a causa di una non meglio precisata febbre emorragica.
Nel giugno scorso una «febbre sospetta» colpisce l’area di Warsheikh
e vengono segnalate vittime nei villaggi di Adehlé e di Run Mirgod.
Il
22 giugno 1998 l’agenzia di stampa libica sintetizza uno studio del
ricercatore algerino Kadhem Amoudi, secondo cui «l’alta mortalità di
dromedari in Somalia è causata anche dallo scarico di rifiuti nucleari
americani nel deserto del Corno d’Africa». Il 15 giugno un altro dispaccio
dell’agenzia libica dà notizia di una simile epidemia nell’area di Baidoa,
che coinvolge migliaia di persone, con decine di vittime a Seyd Helow
e Bulo Barakov.
Sull’aereo
che il 28 ottobre ci trasporta da Merka a Nairobi, la dottoressa Pirko
Heinnonen dell’Unicef ci dice che a Bardale (una cittadina a ovest di
Baidoa, dove lei era appena stata) una nuova epidemia di natura sconosciuta
sta mietendo vittime: «Almeno 120 morti in due mesi», dice. «I sintomi
sono febbre alta, tremori in tutto il corpo, emorragia al naso e alle
gengive».
Da
dove arrivano i rifiuti? Le Procure di Asti e Torre Annunziata stanno
concludendo laboriose indagini sul coinvolgimento di aziende italiane,
su eventuali coperture dei servizi segreti (con i magistrati collaborano
ex agenti o confidenti del Sismi) e sul riciclaggio di denaro sporco,
come ad esempio i dinari della Libia (sotto embargo valutario) o quelli
kuwaitiani, rapinati dagli iracheni in seguito all’invasione del 1990.
Le
ragioni di un’inchiesta
Da
sempre Famiglia Cristiana segue con attenzione i tanti misteri
che avvolgono la Somalia, un Paese che negli ultimi due decenni è stato
teatro di tutto: dagli scandali e dalle tangenti della Cooperazione
ai più diversi commerci illeciti, dagli omicidi sospetti (come quelli
del vescovo di Mogadiscio, monsignor Salvatore Colombo, dei giornalisti
Ilaria Alpi e Miran Hrovatin) alle gravi violenze commesse persino da
militari dei contingenti Onu.
Solo
nel corso di quest’anno abbiamo già pubblicato due inchieste (sul numero
8 del 4 marzo e sul numero 13
dell’8 aprile). Lavorando sul campo, i nostri inviati hanno incontrato
altri colleghi impegnati a far luce sui traffici di armi e di rifiuti,
nonché sul riciclaggio di denaro sporco.
Ne
è nato un piccolo pool che comprende, per Famiglia Cristiana,
Barbara Carazzolo, Alberto Chiara e Luciano Scalettari, unitamente a
Francesco Carcano (Tv svizzera italiana), Davide Demichelis (giornalista
freelance), Andrea Di Stefano (gruppo Espresso-Repubblica), Angelo
Ferrari (attualmente all’Agi), Giancarlo Fortunato (fotoreporter)
e Raffaele Masto (Radio Popolare).
Qualche
settimana fa, divisi in due gruppi, alcuni di essi si sono recati in
Somalia, facendo tappa a Berbera, Bosaso, Burao, Hargheisa, Mogadiscio,
Merka, Kisimayo. Questo reportage è frutto di sei mesi di lavoro.
Arriva
la cisterna, la gente si ammala
Una
cisterna, lunga 6 metri, corrosa dall’acqua salata, e un fusto rotto.
Le foto appartengono al corredo di immagini allegato al rapporto di
Mahdi Gedi Qayad, un consulente dell’Unep, l’agenzia delle Nazioni Unite
che si occupa di tutela dell’ambiente.
Per
verificare le voci di scarichi illegali di sostanze tossico-nocive,
Mahdi Gedi Qayad, docente di Chimica, dal 10 maggio all’8 giugno 1997
ha svolto accurate indagini lungo le coste somale.
La
cisterna qui sopra, in particolare, è stata fotografata sulla spiaggia
tra Ige e Mareeg, 350 chilometri a nord di Mogadiscio. «Molta gente
del posto ha detto che una cisterna simile è stata scaricata in mare
non lontano da lì», si legge nel rapporto. «Alcuni pescatori hanno lamentato
improvvise allergie imputabili a vernici e altri sintomi strani».