Chi ha paura della verità?

«La
Commissione Gallo», dicono i genitori della giornalista uccisa a Mogadiscio
nel 1994, «è stata solo un’altra speranza delusa». «L’opinione pubblica
ci sostiene, ma dalle istituzioni abbiamo avuto solo indifferenza».
«Perché sono spariti gli appunti e la macchina fotografica di Ilaria?
Chi li ha presi?».
Giorgio e
Luciana Alpi stavano fermi al semaforo, una macchina li ha affiancati
e il guidatore ha gridato: «Mi riconoscete? Non mollate, eh, non mollate!».
Era Renato Zero. È successo pochi giorni fa, i genitori di Ilaria erano
apparsi in televisione all’uscita dalla Commissione Gallo, le facce
sconvolte nella ressa di giornalisti e fotografi. La Commissione, nominata
per indagare sul "caso Somalia", era stata riaperta dopo le rivelazioni
a sorpresa del maresciallo Francesco Aloi, e la più sconvolgente era
una confidenza che gli avrebbe fatto Ilaria: «Non ho paura dei somali,
ma degli italiani». L’8 settembre i commissari hanno sentito Giorgio
e Luciana Alpi: i quali dall’incontro hanno ricavato solo amarezza e
delusione, due sentimenti che li accompagnano, insieme al dolore, dalla
morte della figlia, la giornalista del Tg3 assassinata a Mogadiscio,
con l’operatore Miran Hrovatin, il 20 marzo 1994.
«La Commissione
Gallo? Un’altra speranza delusa. Abbiamo ricostruito la vicenda raccontandone
tutte le falsità, le omissioni, i documenti scomparsi. Nessuno ha fatto
un verbale, i registratori erano volutamente spenti, e alla fine sa
che cosa ha dichiarato il presidente Ettore Gallo?: "Gli Alpi hanno
detto cose di contorno, la loro audizione è stata un gesto di umanità
e cortesia"».
La voce della
signora Luciana si spezza, interviene il marito: «Cose di contorno?
Gallo usa una metafora culinaria e io la completo: gli abbiamo fornito
un primo piatto, altro che contorno. Potrebbe essere la conferma di
quanto ha denunciato il maresciallo Aloi. Altro che "gesto di umanità
e cortesia" nei nostri confronti, non l’abbiamo chiesto noi di essere
ascoltati dalla Commissione. Nessuno dei commissari ha reagito alle
dichiarazioni di Gallo. Non i generali Giambuzzo e Vitale, ma sono militari,
si capisce. Però ha taciuto Tullia Zevi, e nessuna meglio di lei sa
che cosa significa lottare per la giustizia; e anche Tina Anselmi, che
pure ci aveva ascoltato sbalordita, incredula…».
Ancora un’attesa
delusa. Che cosa resta? «Il sostegno dell’opinione pubblica, l’affetto
di chi ci scrive di andare avanti, e i fiori o i piccoli doni che troviamo
sulla tomba di Ilaria. Dalle istituzioni riceviamo solo indifferenza,
per non dire vero menefreghismo».
Le voci di
Luciana e Giorgio Alpi si alternano, mentre uno o l’altra tira fuori,
dalle cartelle della loro imponente documentazione, una specie di grande
archivio del dolore, lettere, documenti, ritagli di giornali, fotografie.
Ci sono episodi recenti del "menefreghismo" di Stato: «Appena siamo
venuti a sapere che un satellite americano poteva aver ripreso le fasi
dell’agguato, fin dal maggio scorso abbiamo sollecitato il sottosegretario
agli Esteri Rino Serri perché ottenesse dagli americani due cose: il
filmato fatto dal satellite quel maledetto 20 marzo del 1994; il referto
stilato dal medico della ditta Brown e Root di Houston, nelle cui celle
frigorifere furono messi i corpi di Ilaria e Hrovatin. Serri non ci
rispose. Si convinse a riceverci solo a fine luglio, dopo alcune lettere
furiose che mandammo al ministro degli Esteri Dini. E che cosa ci ha
detto Serri, dopo un silenzio di due mesi? Che sì, una lettera delle
Nazioni Unite era arrivata al ministero già dal 20 maggio scorso, diceva
che il satellite era stato in funzione, però le immagini risultavano
poco chiare. E Serri ce lo comunica con due mesi di ritardo? Potevamo
farle decrittare noi, le immagini, ci sono fior di esperti per questo,
visto che il ministero se ne lava le mani».
E la seconda
richiesta, il certificato di morte del medico americano? «Ah, un’altra
storia edificante. Il certificato non esiste più, e la scusa è che la
ditta americana ha chiuso… Ma a che serve indignarsi?». Così esclama
amaramente la signora Luciana, ma subito un’altra cosa la indigna: «Una
delle ipotesi sulla morte di nostra figlia è quella di un attacco dei
fondamentalisti islamici. Il colonnello del Sismi Bruno Raiola, oggi
generale, è stato a Mogadiscio prima, durante e dopo la permanenza delle
nostre truppe. Questo signore riesce a mettere insieme una sola idea:
gli attentatori erano fondamentalisti islamici. Senza elementi, senza
riscontri. Ma perché il Governo, perché Prodi, da cui dipendono i servizi
di sicurezza, non gli impone di saperne di più, non lo mette di fronte
alle sue responsabilità? I tre bloc-notes di Ilaria scomparsi nel tratto
Mogadiscio-Ciampino, dopo che le due salme erano state prese in consegna
dagli italiani, chi li ha presi? I fondamentalisti islamici? Ilaria
parlava l’arabo come l’italiano ed era in buoni rapporti con i fondamentalisti,
aveva organizzato incontri con loro. E proprio i fondamentalisti l’avrebbero
uccisa?».
Le domande
si accavallano, e non c’è risposta. Questa è l’angoscia dei genitori
di Ilaria: «La nostra paura è che il mistero della morte di nostra figlia
e di Miran finisca nel limbo dei casi irrisolti, come Ustica, come Piazza
Fontana». Gli chiediamo come hanno reagito quando è stato reso pubblico
il memoriale del maresciallo Aloi, soprattutto davanti a quella tremenda
confidenza che Ilaria gli avrebbe fatto: «Non ho paura dei somali, ma
degli italiani».
«Subito c’è
stato da parte nostra un rifiuto. Ci terrorizzava l’idea che Ilaria
e Miran avessero pagato per le colpe dei nostri connazionali. Era una
terza ipotesi, incredibile, dopo le prime due: la mala cooperazione
e il traffico di armi su cui Ilaria stava facendo un’inchiesta, e un
agguato degli integralisti islamici. Ma questa terza ipotesi-bomba,
che Ilaria sia stata uccisa perché si apprestava a rivelare atti di
violenza compiuti dai soldati italiani su uomini e donne somali, ci
è apparsa meno incredibile quando abbiamo avuto due riscontri. Ilaria
è stata a Mogadiscio sette volte, abbiamo controllato le date, e per
40 giorni la sua presenza ha coinciso con quella del maresciallo Aloi.
Quindi l’ha
conosciuto, perché lei conosceva tutti quelli del contingente. Il secondo
riscontro sta in due foto che riprendono Ilaria mentre scatta fotografie
con la sua piccola automatica, scomparsa anche quella, come tanti altri
oggetti e carte che le appartenevano. Ti vengono i cattivi pensieri,
forse ha fotografato cose che non doveva vedere e che coinvolgevano
soldati italiani. Le rivelazioni di Aloi ci hanno messo in testa un
tarlo: se fossero vere spiegherebbero molti comportamenti. Adesso fanno
di tutto per denigrare Aloi, eppure è un maresciallo dei Carabinieri,
figlio di un maresciallo dei Carabinieri e con altri due fratelli arruolati
nell’Arma».
Ilaria era
una giornalista scrupolosa, tutto il suo lavoro al Tg3 lo dice. Perché
non avrebbe mandato subito dei servizi sui presunti episodi di violenza?
«Ci abbiamo pensato e la nostra conclusione è che aspettava di tornare
da Mogadiscio per scrivere un libro, richiestole dalla Eri, l’editrice
della Rai, sulla missione italiana in Somalia. Per il Tg3 raccontava
con le immagini, e certo sulle presunte violenze immagini non ce n’erano,
quel che poteva aver saputo sulle malefatte del nostro contingente forse
l’aveva appreso di seconda mano. Nel libro avrebbe potuto scrivere tutto,
dopo averlo verificato. Non aveva paura di dire la verità, Ilaria. Si
scandalizzava per il razzismo dei nostri soldati, che trattavano i somali
con disprezzo. Non sopportava di vederli fare il saluto romano e cantare
"Faccetta nera" quando passavano davanti ai cippi o alle targhe dell’epoca
fascista.
Questo l’ha
scritto anche sul suo diario, una delle poche cose che ci sono state
restituite insieme al velo bianco che portava sempre con sé per coprirsi
quando incontrava gruppi di musulmani o entrava in una moschea. Voleva
fermarsi in Somalia anche dopo il rientro del nostro contingente, che
avvenne quel 20 marzo, giorno della sua morte. Ci aveva telefonato due
ore prima: "Se posso resto ancora, vorrei vedere le reazioni dei somali
dopo la partenza degli italiani". Ma è rimasta intrappolata nell’agguato».

L’agguato
dei sette somali, mille domande senza risposta: «Perché ha deciso di
uscire dal suo albergo dopo esservi appena rientrata, stanca, sporca,
senza mangiare, alle 14.30 di un pomeriggio caldissimo? Perché la sua
guardia del corpo proprio quel giorno stava male e lei dovette prenderne
una che non conosceva? Perché è morta per un colpo in testa, come un’esecuzione,
ed è morto anche Miran, mentre l’autista e l’uomo di scorta sono usciti
illesi? Perché i militari italiani, subito informati, non hanno mandato
sul posto un’ambulanza e un medico?…».
>Una lettera
del generale
Perché, perché,
perché…« Ah, c’è da tirarne fuori un romanzo dell’orrore». La signora
Luciana scuote la testa, elenca una serie sconcertante di omertà, di
menzogne: «Due mesi dopo la morte di Ilaria, abbiamo ricevuto una lettera
del generale Carmine Fiore, ultimo comandante del contingente. Era una
lettera piena di bugie, e quando l’ho detto in pubblico, Fiore mi ha
denunciata per calunnia. Sono stata assolta in fase istruttoria, da
tredici mesi aspetto l’appello e sto perdendo la pazienza: voglio che
infine si dica se sono io a mentire o se invece mente il generale Fiore».

Com’è la vostra
vita, signora Luciana? «Viviamo solo per cercare la verità. Mio marito
ha lasciato il suo lavoro di primario urologo, io passo l’intera giornata
a rigirarmi in testa questa orrenda storia». E se arriverete alla verità,
poi che cosa farete? «Il sacrificio di Ilaria e Miran non sarà stato
inutile. Andremo al cimitero più tranquilli».
Questa risposta
viene dal professor Alpi, che salutandoci racconta una coincidenza sinistra.
Il suo nonno materno, Filippo Quirighetti, fu ucciso a Lafolè, vicino
a Mogadiscio, nel 1896. Come funzionario delle Finanze partecipava alla
spedizione Cecchi, mandata dal governo per controllare il primo insediamento
italiano in Somalia. Rimase vittima di un agguato, insieme ad altri
tredici italiani, tra militari e civili. Ad essi è stato dedicato un
cippo. Ilaria andò a vedere questo cippo e poi telefonò ai genitori:
"Non vi preoccupate per me, noi alla Somalia abbiamo già dato", disse.
Giorgio Alpi scuote la testa e mormora: «Si vede che non avevamo dato
abbastanza».