Silenzio, si spera. Laura Silvia Battaglia sulla vicenda dei quattro giornalisti “rapiti” in Siria. Tra loro anche Amedeo Ricucci vincitore del Premio Ilaria Alpi

Ilaria Alpi. it ha chiesto a Laura Silvia Battaglia giornalista e tutor del Master in Giornalismo dell’Università Cattolica di Milano un intervento sulla vicenda dei quattro giornalisti “rapiti” in Siria. Tra loro anche Amedeo Ricucci, vincitore del Premio Ilaria Alpi nel 2001 e amico dell’Associazione Ilaria Alpi.  (il blog di Laura Silvia Battaglia) 

I quattro reporter italiani “fermati in Siria” sono il giornalista Rai Amedeo Ricucci, il fotografo Elio Colavolpe, il documentarista Andrea Vignali e la freelance Susan Dabbous.

Nel nome è il destino. Una massima latina che ha una sua verità. E ha una sua verità per i nomi degli uomini, dei luoghi, anche delle idee. Così, quando i colleghi Amedeo ed Elio, insieme a Susan e Andrea, diedero il nome al nuovo progetto, quel titolo non ci piacque affatto. “Silenzo, si muore” ha una forza disarmante, un retrogusto sinistro. Eppure mai nome di un progetto mediatico sulla Siria sembrava più azzeccato. Era perfetto per descrivere una tragedia dimenticata, per accendere l’attenzione sulle migliaia di vittime dall’inizio delle proteste, per dare l’idea di una terra dove il silenzio e l’acquiescenza, per il timore che qualcuno possa parlare, e peggio, perseguitarti e ucciderti, la fanno da padroni dai tempi di Assad padre. Ma certo non avevamo previsto che in quel nome ci sarebbe stata una parte della storia e che la storia sarebbero stata, involontariamente, loro. Proprio loro che, in quanto giornalisti che non hanno mai perduto lo spirito autoptico della ricerca e della verifica sul campo, volevano dare voce a chi non ce l’ha e che sono diventati essi stessi, come in un reality girato male, parte del conflitto e di questo silenzio. Sapere di essere diventati protagonisti dei media, ne siamo certi, non farà a loro piacere. E questo va detto contrariamente a quanti, con pochezza intellettuale, provano già invidia, immaginando il rientro dei presunti ostaggi e ipotizzando che il libro paga dei quattro salirà esponenzialmente alle stelle. Non c’è paga e non c’è storia che valga una sola di queste vite. Ce lo insegnano le vicende di Ilaria Alpi, Miran Hrovatin, Antonio Russo, Marco Lucchetta, Marcello Palmisano, Maria Grazia Cutuli, Raffaele Ciriello. Ma non c’è silenzio che oggi, a sei giorni dal fermo effettuato, ci appaia più assordante. Quel silenzio che è stato interrotto all’inizio, per il cinismo del nostro mestiere, per l’ansia spasmodica di arrivare per primi e fare il botto di ascoltatori e che, per lo stesso principio, in queste ore, blocca ciascuno dal proferire una sola parola, che sia una, in merito. Così, se nel nome è il destino, il silenzio è più che un destino: è già una realtà, una condizione imposta, una lezione che si abbatte sui media che lo hanno violato all’inizio, quegli stessi media che amano dare risposte immediate e letture univoche su un conflitto sul quale sarebbe meglio parlare sempre in modo circostanziato e problematico, esercitando la ragionevolezza del dubbio, non patteggiando come allo stadio per due squadre in lotta. In questo silenzio, oggi, si ritrovano, loro malgrado, tutti: i pro Assad, gli anti Assad, gli attivisti, gli ecclesiastici, i giornalisti, gli analisti. Questo silenzio impone il dubbio a chi ha sempre avuto certezze e, da questo punto di vista, il progetto “Silenzio, si muore” ha già una sua grave e circostanziata risposta. Ora, affinché questo lavoro possa avere la conclusione che merita, vorremmo sapere che il destino non ha presunzioni e che, per una volta, potrebbe non risolversi nei suoi modi ineluttabili. In queste ore di attesa vorremmo scambiare l’angoscia con un sentire diverso e rivoltare il destino al secondo nome scelto dai quattro colleghi. Vorremmo poter dire “Silenzio, si spera”, sapendo che ne è valsa davvero la pena.

Laura Silvia Battaglia